C’est pas moi: la recensione del nuovo film di Leos Carax
Abbiamo guardato, in anteprima dal Festival di Cannes, il nuovo mediometraggio dell'eccentrico autore di Holy Motors.
Incaricato dal Centre Pompidou di girare un piccolo film per l’inaugurazione di una mostra che poi non c’è più stata, Leos Carax si è lasciato ispirare da questa commissione e l’ha trasformata in commistione, di immagini e di generi, di toni e di concetti, di provocazioni e di depistaggi, di cinema e di magia: C’est pas moi è un autoritratto ironico e non convenzionale, un mediometraggio nel quale l’autore francese ripercorre la propria carriera e racconta alcuni aspetti della propria umanità.
Il Coma di Leos
Durante la scorsa Mostra del Cinema di Venezia, lo scrivente aveva recensito La Bête di Bertrand Bonello creando un parallelismo con Holy Motors di Carax: le analogie erano sottese eppure ad occhio attento ben visibili, dalla scelta di raccontare la disgregazione dell’epoca contemporanea a quella di mostrare la santificazione delle macchine, dallo sdoppiamento dei corpi e degli schermi alle voci e i corpi relegati fuori campo, dalla dichiarazione del letargo alla finzione della “resa” – digitale in Holy Motors, onirica in La Bête. Nel caso di C’est pas moi, si potrebbe giocare di rimbalzo e trovare una simmetria con Coma di Bonello, considerato lo spaesamento onirico, surreale e quasi ipnotico che entrambi gli autori propongono in queste opere. Questo film, d’altronde, è per Carax proprio una specie di coma nell’attesa di un risveglio nuovo e potenzialmente inedito, un divertissement profondissimo eppure pieno di inevitabile leggerezza.
Il trucco e la frammentazione
Accompagnato dal Denis Lavant che qui è (di nuovo) soprattutto Mr. Merde, tramite un montaggio creativo e imprevedibile che unisce sequenze nuove, immagini di repertorio, scritte che si alternano e sovrappongono con frenesia e scene tratte da altri film, Carax prosegue la sua ricerca all’interno della destrutturazione del linguaggio contemporaneo, esaspera la frammentazione ma solo per – citando implicitamente ed esplicitamente Godard – mostrare il trucco. Tra affondi preoccupati sulla guerra e provocazioni (non tanto) sottili – “Polanski è un ebreo maschio, bianco e omosessuale” -, dichiarazioni d’amore (preoccupate) al cinema e disvelamento dei padri (artistici), questa esplosione di creatività diventa automaticamente uno dei suoi lavori più intensi e preziosi. Dopo i titoli di coda, c’è la danza di una bambola-marionetta di Annette sulle note di David Bowie che ricorda la danza-lotta dei corpi digitalizzati in Holy Motors. Un momento, piccolo e indimenticabile, di grande cinema.
Valutazione finale e conclusioni
C’est pas moi nasce come un film – della durata modesta di un mediometraggio – su commissione, e cresce come un divertimento libero su commistione. Presentato in anteprima in questa nuova edizione del Festival di Cannes, è un’occasione imperdibile per gli amanti del (suo) cinema di affondare negli abissi del suo volontario coma ed accettare il suo ormai classico invito ad uscire dal letargo.