Biografilm 2023 – Chutzpah – Qualcosa sul pudore: recensione
Il cinema come forma di autoanalisi nel documentario di Monica Stambrini, presentato in anteprima assoluta al Biografilm 2023.
Chutzpah – Qualcosa sul pudore è il documentario con cui Monica Stambrini ha partecipato alla diciannovesima edizione del Biografilm 2023.
Chutzpah è una parola yiddish che indica la “spudoratezza” ed è stata scelta come titolo dalla regista perché il suo film è effettivamente una messa a nudo della sua identità, psicologica e anche fisica, senza limitazioni. La Stambrini infatti usa il cinema, in questo caso, come una sorta di strumento di autoanalisi per cercare di capire chi sia davvero.
Cinema come autoanalisi in Chutzpah – Qualcosa sul pudore
Il documentario racconta la scissione che la regista vive dopo il divorzio. A settimane alterne si occupa dei figli e le sembra così di vivere due vite parallele. Quando è con i bambini è una signora borghese, una madre e una ex-moglie. Appena rimane sola invece torna a essere una giovane donna in confusione, che, fra yoga, alcool e sesso occasionale, rivive una sorta di crisi adolescenziale. Per venire a capo di questa scissione la donna allora ricorre al video: registra tutto, i figli, i genitori, gli amanti, una mammografia e persino le sedute dall’analista, senza il suo consenso tra l’altro. Riprendere la vita diventa per la Stambrini un modo per avere la prova che la stia vivendo davvero. L’atto di riprendere è un’ancora di salvezza in un mare di confusione. O almeno questa è una possibile chiave di lettura del film.
Cinema come atto di potere sul reale
D’altronde la regista, come accennato, non si cura troppo del consenso di chi riprende. Mette in scena senza pudore, appunto, anche l’intimità dei figli piccoli ed è determinata a sviscerare davanti lo spettatore la relazione con i genitori, anch’essi divorziati e anch’essi – la madre soprattutto – non sempre troppo felici di partecipare all’operazione. Il rapporto in questione, come sempre nella psicoanalisi, finisce per coinvolgere tematiche sessuali – il padre viveva una vita piuttosto libertina , mentre la madre era più borghese e inibita – e quindi, ancora una volta dinamiche di potere. Insomma al di là della messa in scena di un corpo – Stambrini si riprende nuda con una certa frequenza, indugiando anche su alcuni dettagli fisici molto privati – e delle ossessioni borghesi di un’artista in cerca di nuovi stimoli, il film presenta un certo interesse in quanto chiama in causa alcune questioni teoriche sul rapporto fra il cinema e il potere. Questa si configura come l’altra possibile chiave di lettura del film, che emerge dalla visione.
Le immagini raccolte dalla donna, a esclusione di alcuni spezzoni poetici – molto belli tra l’altro – sono immagini che coinvolgono altri individui. Alcune sono inizialmente girate per scopi diversi dalla messa in scena pubblica, altre addirittura all’insaputa dei propri soggetti e altre ovviamente con lo scopo di esser mostrate. Cioè si tratta di un amalgama di estratti di vita di varia natura che la regista inserisce nel processo filmico, imponendovi una griglia interpretativa. L’atto del fare cinema documentario diventa quasi un atto di costrizione categoriale o di vampirismo artistico. Le identità e le storie dei soggetti vengono annullate e questi assumono valore solo nel momento in cui il fare cinema/ricerca d’identità della regista se ne può nutrire, rendendole categorie della propria autorappresentazione. Alla fine un approccio del genere al documentario catapulta lo spettatore nel mondo intimo dell’autrice, chiudendolo nella sua esperienza privata. È vero che vengono chiamate in causa questioni come il rapporto con genitori e figli, la sessualità, il fare arte, la ricerca di un posto nel mondo, cioè questioni potenzialmente universali, ma il respiro del tutto appare troppo limitato a un tipo di esperienza fortemente connotata per classe e status socieconomico. Inoltre la forte impronta autoriale dell’artista si impone, per forza di cose, su tutti gli altri punti di vista espressi nel film. Anche quando la regista porta in primo piano la questione del consenso della psicologa, tale messa in discussione dell’atto creativo stesso della Stambrini finisce per essere tautologica: quelle sedute alla fine sono state inserite nel montaggio – e a quel punto poco importa che magari sia arrivato un consenso successivo.
Chutzpah: valutazione e conclusione
Insomma sebbene nella forma il film sia affascinante e per alcuni aspetti si inserisca bene nelle moderne tendenze del documentario, nel suo contenuto l’opera finisce forse per essere sin troppo tradizionale, per via di un’estrema esibizione di autorialità che diventa un disperato, e a volte poetico, tentativo di controllo – e non di spudorata liberazione – del reale.