City Hunter: recensione del film Netflix
Il nuovo adattamento Netflix dell'anime cult City Hunter.
City Hunter, il film di Yūichi Satō disponibile su Netflix dal 25 aprile 2024, è il terzo live action tratto dal manga di Tsukasa Hōjō, dopo l’hongkonghese City Hunter – il film (Jing, 1993) con protagonista Jackie Chan e la serie sudcoreana City Hunter (2011).
Anche in questo caso, più che il manga è la serie anime a fornire il testo da cui partire per la riscrittura. O, per l’esattezza, l’ultimo di una lunga lista di film animati tratti dalla serie anime, City Hunter The movie: Angel Dust (Takeuchi e Kodama, 2023 )
La trama del film Netflix infatti rielabora, semplificandola di molto, quella di quest’ultimo lavoro animato e la mixa con i primi episodi dell’anime storico, raccontandoci l’amicizia del detective privato Ryo Saeba con il suo partner Hideyuki Makimura, la morte di quest’ultimo e la nascita del rapporto professionale/sentimentale fra Ryo e la sorella di Makimura, Kaori. L’indagine portata avanti dai due per scoprire chi ha ucciso Hideyuki, poi, porta i protagonisti a dover proteggere la giovane cosplayer Kurumi, invischiata in esperimenti legati a una specie di siero del super-soldato, noto come angel dust.
City Hunter: fra slapstick e neo-noir
Satō ha un bel da fare per rimanere in equilibrio fra le atmosfere realistiche da noir hard boiled e la comicità slapstick, spesso a sfondo leggermente erotico, che contraddistinguono il franchise. Ryo infatti è un personaggio bipolare, che alterna momenti da duro tutto d’un pezzo a momenti di follia adolescenziale, quando la sua attenzione viene attratta da seni, glutei e gambe femminili. Tsukasa Hōjō in un’intervista spiegò come avesse voluto creare un personaggio che dietro i comportamenti allegri e caricaturali dei momenti più distesi, nascondesse una personalità cupa e riflessiva. D’altronde tradurre in live action, in maniera efficace, le varie gag deliranti è impresa ardua. Se l’animazione permette infatti di costruire una certa sospensione dell’incredulità grazie ai mezzi espressivi del disegno, che già di per sé risulta una reinterpretazione astratta dell’umano e del movimento, con gli attori in carne e ossa è tutta un’altra storia. Non a caso il film con Jackie Chan adotta un registro apertamente artificioso e slapstick, lasciando perdere ogni pretesa di realismo e profondità. Questa versione giapponese invece gioca la carta della CGI e dell’action moderno. Il risultato è altalenante e se i combattimenti, improntati sul jujitsu, il karate e il gun-kata, tutto sommato restituiscono bene le atmosfere dell’anime, il resto appare posticcio. Le gag che coinvolgono seni e spogliarelli immotivati del protagonista risultano fuori luogo, nell’atmosfera neo-noir che il film cerca di restituire. Anche i continui riferimenti alla cultura nerd, alla lunga distraggono.
Inoltre City Hunter condivide con City Hunter The Movie: Angel Dust, un certo approccio che potremmo definire turistico, alla fotografia. I film sono entrambi ambientati principalmente nel quartiere di Tokyo, Shinjuko – uno dei più noti e architettonicamente interessanti. Ed entrambi non fanno altro che creare inquadrature oleografiche delle parti più note del luogo. Dai grattacieli postmoderni, alla scultura di Godzilla. Dai club ai ristoranti, fino all’evento dei cosplayer. Tutto è patinato, brillante e ammiccante. Insomma è una pubblicità per gli occidentali, che hanno una certa idea stereotipata del Giappone moderno. Appare chiaro che della Tokyo sporca e neo noir della serie originale è rimasto poco.
City Hunter: valutazione e conclusioni
Infine è da notare il riferimento all’angel dust, la droga che dona superpoteri. Si tratta probabilmente di un omaggio al film del 1994 Angel Dust di Gakuryū Ishii, uno dei registi più influenti dell’ondata anni ottanta-novanta cyberpunk giapponese. Purtroppo però l’omaggio rimane fine a sé stesso e piuttosto che al cinema di Gakuryū, questo City Hunter si rifà alle odierne trasposizioni Netflix di serie anime classiche, con tutti i loro pregi (pochi) e difetti (tanti). Fra richiami nostalgici, modernizzazioni di vecchi topoi – si fornisce una tutto sommato divertente spiegazione per la gag del martello gigante di Kaori – e fotografia al neon, patinata sì ma ben fatta, c’è da dire che rispetto a robe come Hyu Hyu Hakusho (2023) o Cowboy Bebop (2021), almeno qui l’effetto cosplayer è molto limitato e in alcuni momenti lo spettatore può pensare di trovarsi davanti a un vero film.