Claire’s Camera: recensione del film di Hong Sang-soo
Claire's Camera, scritto, prodotto e diretto da Hong Sang-soo con Isabelle Huppert e Kim Min-hee nel cast, presentato al Festival di Cannes 2017 e poi al Florence Korea Film Fest 2018, ci ricorda la semplicità e la naturalezza del bisogno di raccontare e di raccontarci.
Sullo sfondo del celeberrimo litorale cannense, Claire passeggia e incontra Jeon Man-hee, giovane e indefessa lavoratrice, che è appena stata licenziata. Tra le due donne scatta un’istantanea simpatia, che le porta a confidarsi, scoprendo che Claire ha appena conosciuto, rimanendone affascinata, proprio l’uomo che ha causato il licenziamento della giovane. Claire’s camera è, come il regista stesso ha affermato, un divertissement: un incitamento alla commistione di stili e linguaggi per dimostrare che con mezzi semplici e “poveri” si può ancora narrare un’avventura estemporanea e rapidissima, ma non per questo meno densa di stratificazioni culturali e contrasti umani, anche se solo accennati. Sta poi al pubblico decifrarne la profondità e la reale problematicità.
Claire’s Camera: la scommessa di Jeon Man-hee profuma di diversità e semplicità
Isabelle Huppert impersona la protagonista, colei che con una semplice macchina fotografica e una fissazione per ritrarre le persone che incontra riesce a mettere in moto un corto circuito di conoscenze e appuntamenti intricati tra loro. Il film è realizzato con leggerezza estrema, con un disimpegno smaccato e totalmente fluido nel testimoniare la casualità degli eventi di cui siamo quotidianamente protagonisti e al tempo stesso cause. Hong Sang-soo, con questo breve episodio tratto da una realtà plausibile e smaccatamente verosimile, evidenzia la concatenazione dei fatti, la possibilità di narrare storie con ogni semplice passo che facciamo. Il dato emozionale, la difficoltà di discernere i vari sentimenti provati e la ripercussione emotiva delle minime scelte passano in secondo piano, rispetto a una certa urgenza di approfittare di un racconto che non c’è o, meglio, che inizia a esistere nel momento in cui l’obiettivo (di un telefono, di una macchina fotografica) si posa su di esso.
Claire’s Camera: il cinema prende vita attraverso qualunque mezzo di messa in scena narrativa
La complessità dei personaggi e dei loro rapporti è solamente accennata. Claire è la sola tra i protagonisti a cercare di approfondire ciò che vede, tentando di scoprire il mondo racchiuso in ogni sguardo e in ogni gesto delle persone che incontra. Eppure risulta difficoltoso persino questa operazione, nel momento in cui gli eventi si susseguono senza una vera soluzione di continuità. Proprio come nella realtà, le cose capitano, semplicemente: in Claire’s camera gli incontri si succedono l’un l’altro, le coincidenze si rivelano (almeno in parte), gli attriti si manifestano.
In tutto questo il cinema, e con lui qualunque mezzo di messa in scena narrativa, naturalmente prende vita. Solo stando a guardare le vicende si palesano e compongono un ritratto della quotidianità che non ha bisogno di budget stellari o di finzioni forzate e iperboliche, tutto ciò che accade può costituire un universo immaginifico. E di fatto è quello che succede, quando gli eventi costruiscono giorno dopo giorno la storia di ogni individuo. Hang Sang-soo con questo breve esperimento ci ricorda insomma la semplicità e la naturalezza del bisogno di raccontare e di raccontarci, che da sempre ha mosso la natura umana, tralasciando forse gli aspetti più coinvolgenti del cinema come siamo abituati a concepirlo nella contemporaneità, ma concentrandosi piuttosto sulla densità di possibili mondi addensata in ogni passo che Claire (o chi per lei) affronta nella vita.
Non si tratta di un saggio esistenziale. Al contrario, il regista ci regala una breve e intensa forma di racconto che passa in rassegna una serie di finestre chiuse, scegliendo di non aprirne nessuna, ma solo lasciando intuire le diverse occasioni tra cui districare la narrazione.