Clinical: recensione del film Netflix di Alistair Legrand
Con Clinical, il thriller dalle sfumature horror, diretto e co-sceneggiato da Alistair Legrand, Netflix porta sul piccolo schermo un’altra produzione originale, purtroppo non perfettamente riuscita.
Clinical: un thriller che sorseggia appena il calice insanguinato del genere horror
Una psiche frastornata, buchi di memoria e di sceneggiatura, personaggi stereotipati e luoghi anonimi si mescolano nella pellicola, dando vita a un film che solo lontanamente si avvicina al thriller, sorseggiando appena il calice insanguinato del genere horror.
Facendo leva sulla fgura della Dottoressa Jane Mathis, interpretata da Vinessa Shaw, Clinical ci introduce nella vita della protagonista concedendoci l’accesso dalla porta di servizio e mostrandoci fin da subito la situazione critica nella quale versa.
Dopo aver fallito con la cura di una giovane paziente, Jane si sente insicura e, nonostante sia preda dell’insonnia e dell’instabilità, decide di non mollare il suo lavoro.
Tra le sedute con Terry (William Atherton), suo amico e collega, le uscite romantiche con Miles (Aaron Stanford) e i piacevoli momenti con la migliore amica Clara (Sydney Tamiia Poitier), le giornate di Jane trascorrono tra pillole, calici di vino e perenne incertezza, in un valzer di allucinazioni e carte false che però malamente si incastrano, andando a comporre un puzzle scontato, un’opera che fa il verso a molte altre, senza emergere per originalità e soffrendo anche di una profonda crisi d’identità.
Con Clinical, infatti, Alistair Legrand cerca di edificare lo scheletro di un thriller psicologico, concedendosi però delle licenze horror che sgorgano perlopiù nello splatter, senza apportare nulla alla trama e confondendo lo spettatore.
Lo snodo principale della storia risiede certamente nella figura di Alex (Kevin Rahm), un uomo rimasto terribilmente sfregiato a causa di un incidente, che instaura con Jane un rapporto in bilico tra l’interesse amoroso e la necessità di essere curato. Le sue intrusioni notturne in casa della donna, l’atteggiamento ambiguo e altri campanelli d’allarme provvedono a smascherare fin da subito l’evolversi della situazione, privandoci del piacere della scoperta.
Rimanendo sulla superficie della trama, Nora (India Eisley) rappresenta dall’inizio alla fine una presenza inquietante; una figura che si confonde con il sogno e la realtà.
La sua immagine eterea, pallida, malvestita, è perennemente tra due mondi e, se è vero che da una parte affascina per via dell’alone d’incomprensibilità cui è permeata, dall’altra non riusciamo ad entrare in empatia con un personaggio che, forse, è l’unico che avrebbe potuto consentire a Clinical di giocare con la forza introspettiva della personalità.
A una fotografia abbastanza cupa e a un’interpretazione impalpabile si aggiunge una colonna sonora quasi assente e, quando c’è, completamente fuori luogo.
La musica di Natale che si ascolta alla fine della pellicola annulla praticamente del tutto lo sforzo compiuto dallo spettatore per immedesimarsi nella situazione. Abbiamo forse sbagliato film o quelle note sono finite lì per caso?
Se avesse assunto gli stessi medicinali prescritti nel film alla protagonista, forse il regista di Clinical avrebbe partorito un buon prodotto. Ma il punto è che di film sulla psiche umana, su identità devastate dal dolore, malate, abbandonate e confuse ne è pieno il cinema – basti pensare a Shut In e Split, solo per citare gli ultimi arrivati – e spesso per fare un buon film di questo genere la soluzione sarebbe o uscire dal seminato o ricalcare i maestri.
A un certo punto della storia sembra quasi di trovarsi sulle tracce di Gothika (il film di Mathieu Kassovitz con Halle Berry), ma il déjà-vu provvisorio non attenua la delusione.
Clinical avrebbe potuto dare molto di più, avrebbe potuto scegliere una sola strada e percorrerla senza cadere nella tentazione di inserire troppi dettagli senza poi svilupparli.
Volendo trovare un’utilità al film di Alistair Legrand, possiamo senza dubbio consigliarne la visione ai fifoni cronici, perché se c’è uan cosa che questo film non vi mette né lascia addosso è senza dubbio la paura.