Cloud Atlas – Tutto è connesso: spiegazione e recensione
Da sempre, l’obiettivo di Lana e Lilly Wachowski, come da loro stesse ammesso, è di ingannare le aspettative, creare qualcosa di inaspettato per il pubblico, e dopo l’ormai famigerata trilogia di Matrix che li ha consacrati al mondo, hanno pensato di spingersi ancora oltre con Cloud Atlas – Tutto è connesso, intrecciando in un unico film un ventaglio di vite, tempi e mondi.
Perché si può dir tutto delle sorelle registe, ma non si può negare che abbiano un dono particolare per rendere palpabili le fantasiose dimensioni che portano sul grande o piccolo schermo; ci erano riuscite con la saga di Neo, in cui il protagonista (e lo spettatore) apprendeva che quella che riteneva fosse vita vera fosse in realtà un’illusione programmata, un velo di Maya, e Cloud Atlas fa lo stesso ma con ambizione ancora maggiore.
Cloud Atlas: l’epico viaggio fra passato, presente e futuro
Perché c’è certamente ambizione dietro la volontà di adattare per il cinema il romanzo L’atlante delle nuvole di David Mitchell, condividendo addirittura la postazione di regia con un terzo collega, Tom Tykwer, tra i cui lavori ricordiamo Profumo – Storia di un assassino e il recente A Hologram for the King.
Così come quasi incosciente è riunire un cast galattico di attori quali Tom Hanks, Ben Whishaw (entrambi già diretti in passato da Tykwer nei due film sopra citati), Halle Berry, Hugh Grant, Jim Sturgess, Jim Broadbent, Hugo Weaving, James D’Arcy, Bae Doona e Susan Sarandon; assegnando a ciascuno di essi non uno ma diversi ruoli in altrettante epoche.
Difficile qui riassumere la storia, perché è di storie che si tratta.
Abbiamo un avvocato americano in viaggio attraverso il Pacifico per siglare un accordo con uno schiavista a metà del diciannovesimo secolo; un talentuoso compositore scozzese in cerca di fama negli anni ’30; una determinata giornalista invischiata in un pericoloso scandalo nella San Francisco dei ’70; un anziano editore britannico che, ritrovatosi rinchiuso in un ospizio, pianifica la propria fuga nel 2012 (data contemporanea all’uscita del film); ci spostiamo poi nel futuro, nella Nuova Seoul, dove un clone il cui unico scopo è servire i consumatori apprende il proprio diritto alla vita; fino ad arrivare a un tempo ancora più lontano a noi, in cui la civiltà futuristica ha lasciato lo spazio a un mondo spezzato, dove gli umani, arretrati a semi-primitivi o dotati di mezzi iper-tecnologici, lottano per la sopravvivenza.
Cloud Atlas: frammenti di vita uniti grazie alla visione delle Wachowski
Questo molteplice dipanarsi di narrazioni è il cuore di Cloud Atlas, il cui titolo è anche la magnifica composizione del giovane scozzese (Ben Whishaw) che sentiamo risuonare più volte durante la proiezione; per tutto il film, diveniamo parte di questo flusso unico di episodi così lontani eppure così indissolubilmente intrecciati, in una staffetta fra le diverse linee temporali perfettamente tenuto insieme dal montaggio di Alexander Berner (Profumo – Storia di un assassino, Jupiter – Il destino dell’universo).
Sin dall’inizio, l’ordine cronologico non viene rispettato e l’alternanza fra la storia di un protagonista e quella di un altro avviene principalmente per assonanza di dettagli, umori o ritmo.
Ed è questa forse la sfida più grande in cui riesce Cloud Atlas: conferire unità a un prodotto sulla carta così frammentato, non solo sotto l’aspetto narrativo, ma anche per quanto concerne i generi, accostando trionfalmente il film di spionaggio, la commedia e la storia d’amore, fino al fantasy più puro. Una prova di grande maestria da parte delle registe, che non si preoccupano nemmeno di affidare ai propri attori ruoli che valicano, oltre alle epoche, anche il sesso e l’etnia.
Traspare una tale padronanza sul materiale, che anche quando il pesante trucco che ricopre molti dei volti sfiora il ridicolo, l’apparato fino a quel momento allestito è talmente saldo da non permettere a quelle maschere grottesche di far vacillare la credibilità; lo scorgere sotto quelle protesi gli occhi e i tratti degli attori visti poco prima rinsalda anzi il motivo della reincarnazione che è il tòpos del film.
Cloud Atlas: una rete di storie per raccontare l’unica grande storia dell’umanità
Cloud Atlas è un’opera ambiziosa ma mai vanagloriosa; un lavoro che osa e che per questo merita già di per sé un plauso, soprattutto perché, con la sua ricchezza di dettagli e la sua durata, non sottovaluta il pubblico, chiedendogli di imbarcarsi in un viaggio epico e spingendolo a intraprenderlo più volte, per via delle tante sorprese e riferimenti che collegano le varie trame, tutti scovabili probabilmente solo dopo diverse e attente visioni.
Con le molteplici storie raccontate, le Wachowski mettono in scena l’unica grande Storia, quella dell’umanità, un oceano composto da tante piccole gocce le cui azioni hanno conseguenze su tutte le altre (e il senso di interdipendenza si avverte anche nel cast tecnico: oltre ai tre registi, la sognante e coinvolgente colonna sonora è scritta a sei mani da Tom Tykwer, Johnny Klimek e Reinhold Heil; mentre la splendida e cangiante fotografia è opera di John Toll e Frank Griebe).
“La nostra vita non è nostra”
“La nostra vita non è nostra. Da grembo a tomba, siamo legati ad altri, passati e presenti” è il lascito di Sonmi-451 (Bae Doona) alle civiltà che verranno e che traduce l’esortazione delle registe, secondo cui ciascun individuo è connesso agli altri, arrivato dove si trova per le scelte compiute dai propri antenati o dal se stesso di una vita precedente, ma non per questo irrimediabilmente predestinato (Jupiter – Il destino dell’universo continua dopotutto questo discorso).
Ognuno di noi può dunque diventare quella stella cometa che marchia il corpo dei protagonisti più temerari e rivoluzionari, in grado di cambiare le cose pur nel suo veloce e apparentemente insignificante passaggio.
Cloud Atlas – Tutto è connesso è diretto da Lana e Lilly Wachowski con Tom Tykwer.
Il cast comprende Tom Hanks, Ben Whishaw, Halle Berry, Hugh Grant, Jim Sturgess, Jim Broadbent, Hugo Weaving, James D’Arcy, Bae Doona e Susan Sarandon. Uscito nel 2012, di produzione tedesca-americana, il film ha ricevuto svariate nomination ai Golden Glode e a Saturn Awards, portando a casa in quest’ultima competizione il premio per Miglior montaggio e Miglior trucco.