Copshop – Scontro a fuoco: recensione del film con Gerard Butler
Stallo alla messicana, in una polverosa stazione di polizia americana: chi avrà la meglio tra il malvivente in fuga, il killer professionista e la poliziotta tutta d'un pezzo?
Dopo una pausa di sette anni, il regista Joe Carnahan si è ripresentato al grande pubblico non con uno ma con due film, entrambi realizzati nel 2021: Boss Level e Copshop – Scontro a fuoco. Dell’autore originario di Sacramento in Italia ricordiamo soprattutto il trittico Smokin’ Aces (2007) – A-Team (2010) – The Grey (2011), che ben riassumono il suo modus operandi. A Carnahan piace l’exploitation, lo sfruttamento intensivo di un genere senza troppi fronzoli o tante dietrologie. Con una particolare passione per gli anni ’80 e la sua estetica.
I titoli di testa di Copshop – film presente nel catalogo di NOW, dopo un passaggio in prima visione su Sky – rappresentano quindi un po’ un marchio di fabbrica, una sorta di promessa da mantenere per le successive (quasi) due ore. Rilassatevi, rilassiamoci; state per guardare un action, ed è quello che fedelmente vi sarà regalato. Ma può anche succedere che alla fine a divertirsi sia anche solo chi il film lo fa, dimenticandosi un po’ dell’empatia col pubblico.
Copshop – Scontro a fuoco: la trama del film si basa sulla storia di un professionista (e non di uno psicopatico)
È sempre stato uno dei problemi principali della filmografia di Carnahan: la pressoché totale mancanza di impronta personale, creatività, novità. Come se il suo intento principale fosse l’emulazione pedissequa di generi e stilemi tanto amati e coi quali probabilmente è cresciuto. Il machismo old school, il pulp tarantiniano (che neanche Tarantino fa più), la leggenda degli uomini soli contro tutti (se vi viene in mente John Wick non è di certo un caso).
Potrebbe essere questa, in fondo, un’estrema sintesi di Copshop, che mette in scena essenzialmente uno stallo alla messicana all’interno di una polverosa stazione di polizia in Nevada. Ci sono un malvivente, un sicario incaricato di ucciderlo e una poliziotta integerrima e idealista. Un trio a cui si aggiunge ad un certo punto un killer psicotico di nome Lamb (per inciso, il personaggio più interessante di tutto il film) che, nel dubbio, elimina a vista chiunque gli si pari davanti intralciando la sua missione omicida/suicida.
La lunga notte dell’agente Young
Un po’ poco, forse, ma rispetto agli straight-to-video da mezza tacca in cui attori un tempo di primo piano si riciclano in camei di una manciata di minuti (una produzione sterminata e a suo modo comica, che meriterebbe un giorno un’analisi approfondita), c’è di che rammaricarsi. Perché qui Gerard Butler, nei panni del cacciatore di taglie veterano, è davvero sprecato; e la giovane Alexis Louder, agente ferita che in qualche modo deve tenere a bada le diverse esigenze dei due criminali, riesce a costruire non si sa neanche bene come un personaggio credibile e tridimensionale, a differenza delle figurine appiccicate sullo sfondo che le ruotano attorno.
Di sicuro, non è facile tirare fuori uno sparatutto soddisfacente, di questi tempi. Il sottogenere è diventato prassi, imitazione. Copshop non si sforza molto per uscire dal perimetro canonico: vorrebbe appartenere alla schiera degli intelligenti, dei selvaggi, dei cartooneschi. Ma finisce per essere – anche quando infine esplode la violenza sopra le righe – ridicolo e vagamente deprimente. In una delle prime sequenze del film, la poliziotta Young canzona un collega ricordandogli che “Non è il pennello, ma l’artista”, relativamente all’uso della pistola. Ecco, ci siamo: senza un giusto respiro autoriale, Copshop resta un bizzarro escape movie qualsiasi, di cui si può fare pacificamente a meno.