Dark Hall: recensione del film di Rodrigo Cortés
Dark Hall, ovvero: come un horror non dovrebbe essere. Tra ragazze difficili, educatrici severe e case infestate, il film di Rodrigo Cortés è un irrisolto pasticcio senza capo né coda.
In estate, le sale cinematografiche italiane diventano il luogo di riferimento per gli amanti del cinema dell’orrore. Ce n’è per tutti i gusti: dalla satira nera di Amiche di sangue alle possessioni demoniache di Hereditary – Le radici del male, dai labirinti mentali di Unsane al gioco destinato a diventare tragedia di Obbligo o verità. Ma è proprio a causa di cotanta esuberanza distributiva che saltano maggiormente all’occhio gli anelli deboli della catena, i fondi di magazzino ripescati a caso e ripuliti grazie ad un trailer accattivante.
Dark Hall – terza prova alla regia dello spagnolo Rodrigo Cortés – è un disastro produttivo, da qualunque punto di vista lo si osservi, nonostante lo spunto young adult iniziale (desunto dal romanzo omonimo di Lois Duncan) sia accattivante e nonostante la presenza nel cast della rediviva Uma Thurman. Ma, nello specifico, cosa non funziona in Dark Hall? Cerchiamo di fare chiarezza.
Dark Hall e l’horror femminista
Anzitutto, la trama: Dark Hall narra di una ragazzina difficile che viene spedita in un austero collegio nel momento in cui la sua famiglia non riesce più a gestire il suo carattere problematico. Una volta arrivata nella scuola correttiva, la protagonista entra in contatto con la misteriosa direttrice Madame Duret e con degli anomali segreti che potrebbero avere a che fare con il paranormale.
L’horror – genere metaforico per eccellenza – da un paio di anni cavalca due nuove importanti tendenze: l’anti-trumpismo (Get Out – Scappa, film che sancisce la fine dell’era Obama e l’inizio dell’era Trump; A Quiet Place, che in chiave allegorica racconta di un mondo prossimo venturo ridotto al silenzio) e il femminismo post-Harvey Weinstein (The Witch, It Follows). A questa seconda categoria vorrebbe ovviamente appartenere anche Dark Hall, ma i problemi sono molteplici: dalla pessima caratterizzazione dei personaggi (ogni ragazza reclusa nella magione ha un proprio tratteggio e possiede uno specifico talento, ma è del tutto priva di qualunque introspezione psicologica, è una figurina attaccata alla cornice del film) alla pretesa di voler delineare un cammino di emancipazione che porti ad un’evoluzione, quando tutto sembra accadere invece per puro caso. Manca la spinta dal basso, manca un pretesto verosimile che non sia quello dell’unione femminile che dovrebbe fare la forza. Una forza data per non pervenuta, e che non viene minimamente giustificata.
Dark Hall e un carneade di nome Rodrigo
Dopo aver fatto parlare di sé con l’esordio Buried, che nel 2010 sconvolse la platea del Sundance portando alle estreme conseguenze l’idea terrificante della sepoltura da vivi (tutta l’opera è girata all’interno di una bara, e ha per protagonista il solo Ryan Reynolds), il regista Rodrigo Cortés è rientrato progressivamente nei lidi sicuri del thriller venato d’orrore. Del resto, la Spagna dovrebbe – condizionale d’obbligo – essere la patria dell’horror contemporaneo: The Others, Rec, The Orphanage e La madre sono solo alcuni dei titoli con cui i vari Alejandro Amenábar, Jaume Balagueró, Paco Plaza, Juan Antonio Bayona e Andres Muschietti si sono fatti conoscere e apprezzare da Hollywood.
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Ma se horror deve essere, c’è la necessità che abbia un taglio o un registro che ne delimiti le caratteristiche, a costo di sporcare o annacquare il genere contaminandolo con altre derive (come accade ad esempio con il sopraccitato Amiche di sangue). Dark Hall non prende una via, non si sbilancia mai, e invece di accontentare magari solo una parte della platea delude tutti. Potrebbe essere un ghost movie, con quelle ombre che sembrano apparire negli angoli più reconditi delle stanze; potrebbe essere un horror gotico, magari più pop ma dal sicuro impatto visivo; potrebbe infine essere un thriller psicologico, se solo avesse il coraggio di affondare più apertamente le mani nelle ossessioni paranoidi degli adulti che gestiscono il collegio per il loro folle tornaconto. Invece, come fosse una sceneggiatura presa e abbandonata da decine di mani, rimbalza fra tutte queste suggestioni in modo pretestuoso e affossando ogni possibile credibilità, lasciando sul campo solo l’evidenza dei propri banali cliché, delle proprie palesi contraddizioni e delle proprie imbarazzanti forzature.
Dark Hall e il miscasting: qualcuno salvi Uma e AnnaSophia!
Nonostante sembri sempre presente sui nostri schermi, Uma Thurman in questi anni ha girato pochissimi film: un ruolo di secondo piano in Nymphomaniac (2013), una parte non particolarmente interessante in Il sapore del successo (2015) e, ora, Dark Hall. Non è dato sapere se l’attrice originaria di Boston sia in cerca di rilancio dopo anni di appannamento, ma di sicuro non sarà la sua eccentrica Madame Duret a ridarle lustro e importanza. Nei panni della ferrea e ambigua direttrice, Thurman offre il minimo sindacabile, per nulla aiutata da uno script che le fa pronunciare solo o frasi fatte o assurdità indegne dei peggiori film di serie Z (che tuttavia spessissimo sono almeno auto-ironici e consapevoli).
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Non va molto meglio alla giovane AnnaSophia Robb, che dopo il fallimento epocale di The Carrie Diaries (la serie tv del 2013 incentrata sulla gioventù della protagonista di Sex & the City Carrie Bradshaw) si è ritrovata tra le mani pochissime proposte, perlopiù provenienti da autori indipendenti. Per quanto provi a dare un tono e una tridimensionalità alla protagonista Katherine, il campionario espressivo che offre al pubblico è risicatissimo: occhi sbarrati per la paura, bocca semi-aperta per lo stupore. Poco, anzi pochissimo per creare un’empatia, e anche di lei ci si dimentica prontamente ai titoli di coda, trascinata via dall’ultimo annoiato sorso di coca cola.