RomaFF12 – Detroit: recensione del film di Kathryn Bigelow
Detroit riporta un fatto di cronaca crudele ma reale, reso tale grazie allo stile, alla forma da giornalismo cinematografico della Bigelow.
Kathryn Bigelow dopo K-19, The Hurt Locker e Zero Dark Thirty presenta alla 12a Festa del Cinema di Roma il suo nuovo film Detroit, in cui torna a confrontarsi con una materia spinosa, il razzismo, che si dipana in generi diversi e complementari: il dramma, il genere storico e il poliziesco. Tutti questi generi sono resi aspri e autentici dal genio della regista che, con occhio critico e un taglio documentaristico, acceca con la propria luce investigativa, che assurge all’ingegno, all’intuizione. Ciò che la regista intuisce è che il dialogo sul razzismo è e sarà sempre in cima alla lista delle priorità di una nazione come l’America.
Detroit è un film interpretato da John Boyega, Will Poulter, Algee Smith, Jacob Latimore e racconta degli scontri che accaddero nel 1967, dal 23 al 27 luglio, tra la polizia statunitense e il popolo afroamericano.
Lo sguardo del film si sofferma su tre gruppi di persone, quattro ragazzi neri che sognano un contratto con la Motown, tre poliziotti dal grilletto facile e alcuni ospiti del motel Algiers, teatro di tutti orrori. La città di Detroit vive un periodo di ribellioni brutali, un caos generale, alcuni quartieri sono preda di rapine, sommosse a causa dell’eccessiva violenza della polizia contro i neri.
Ciò provoca una dura reazione da parte del governo che decide di inviare l’esercito per ristabilire l’ordine pubblico. Parallelamente, al motel Algiers, un gruppo di ragazzi afroamericani scherza con una pistola giocattolo, spingendo la polizia a rispondere al fuoco. Lo scherzo beffardo si tramuta presto in un vero e proprio bagno di sangue, un massacro che marchierà per sempre le vite dei ragazzi del motel, e che a distanza di anni è ancora rimasto impunito.
Detroit riporta un fatto di cronaca crudele ma reale, reso tale grazie allo stile, alla forma da giornalismo cinematografico della Bigelow, che non si sofferma solo a narrare le vicende ma affonda nell’individualità di chi quella notte ha perso la vita. Il film è un pugno nello stomaco che si ripete per due ore, la tensione che imprigiona e che stana è palpabile, ed è talmente forte da farti sentire davvero in pericolo, all’improvviso lo spettatore è parte del dramma, parte del braccio violento della legge.
Detroit lascia convergere tre racconti, tre sguardi differenti, ed è paradossale e simbolico che essi si ritrovino nello stesso spazio a dividersi la paura, le ferite, anche quelle più profonde. La questione razziale viene ridiscussa perché la regista sente l’esigenza di aprire un dibattito irrisolto, che ciclicamente si innesca, si riaccende, come una valvola tremula minaccia di dissigillarsi. I ragazzi afroamericani di Detroit sono colpevoli non di trovarsi al posto sbagliato al momento sbagliato, ma di esserci. Questo è il vero dramma, l’esistenza. Un’esistenza ridotta al minimo, disprezzata, vessata, demolita e schernita anche in seguito nei tribunali.
Le interpretazioni di John Boyega e Will Poulter, i due poliziotti in contrasto, sono cruciali per far comprendere lo stato di abnegazione e corruzione che governa la città, la società e che rende la vita degli afroamericani, e non solo, un inferno assoluto. Lo stato di collasso che vive Detroit è frutto della ribellione di un popolo che dopo Selma, le segregazioni e le discriminazioni, preferisce al white power uno stato in cui a prevalere è l’anarchia.
Questo bisogno di guardare alla tragedia del motel Algiers è un imperativo morale per rammentare quali sono i rischi, le impervie vie che un paese, una nazione come l’America possa riconsiderare o peggio rivivere. Un modo di riguardare senza mezzi termini al passato, con la sparuta lucidità dei nostri giorni. I sentimenti da ieri ad oggi non sono cambiati nei confronti della diversità, c’è sempre una cieca rabbia, una paura irrimediabile, un nazionalismo inesorabile quello che sradica ogni coscienza. E la nascita di un movimento come Black Lives Matter ne è la conferma.
Ma qual è il senso e la lezione di Detroit? Mostrare come il silenzio sia fatale? O l’immobilismo? Si è lasciato correre talmente tanto che si è dimenticato qual è il rischio di aprire una discussione su un orrore che si credeva disperso tra i ghetti e i quadrivi. Una crudeltà che è connaturata, che non si è compresa a pieno per poterne fare materia di storia. Ed è forse ciò manca razionalmente all’America, la comprensione dell’odio.
Kathryn Bigelow presenta alla 12a Festa del Cinema di Roma il suo nuovo film Detroit
Uno stato che non riflette, che non sa meditare, probabilmente non percorrerà la stessa strada, ma andrà sempre nella stessa identica direzione. Un paese che uccide i ribelli, opprime il pensiero libero, non comprende e rimanda la disputa ai posteri, i quali non saranno mai pronti ad affrontare nulla, poiché le ragioni appartengono ad un passato remoto, ormai dimentico di sé e del proprio pensiero.
Se c’è un monito è questo, raggiungere una qualità dell’essere umano di cui essere degni e fieri, senza che nessuna parvenza di ideologia razzista si radichi alla cultura di un popolo. Questo è il rischio maggiore: se crescere collettivamente significa differenziarsi etnicamente, si finisce per confondere lo sviluppo sociale con l’apartheid.
Detroit è un film che narra tutto questo, che dialoga direttamente senza filtri, mostra una realtà che si stenta a voler credere, commovente, disturbante che procede senza mai perdere la fluidità narrativa. Il film della Bigelow è perfettamente calibrato tra storicità e romanzo, realismo e suspance, che si spera faccia discutere, una pellicola essenziale che analizza un tema eternamente reale.