Diciannove: recensione del film di Giovanni Tortorici da Venezia 81
La recensione dell’opera prima di Giovanni Tortorici prodotta da Luca Guadagnino, presentata nella sezione Orizzonti di Venezia 81.
In concorso ad Orizzonti all’81esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica, a seguire la partecipazione nella sezione Discovery del 49° Toronto International Film Festival e poi chissà. Del resto del doman non v’è certezza, figuriamoci per una pellicola come quella scritta e diretta da Giovanni Tortorici che facciamo davvero fatica a inquadrare dal punto di vista del possibile percorso distributivo al di fuori del circuito festivaliero, ma soprattutto del target e della fascia di pubblico al quale si rivolge e che intende intercettare. Diciannove, questo il titolo dell’opera prima in questione prodotta tra gli altri da Luca Guadagnino con la sua Frenesy, in tal senso non ha ancora una data di uscita nelle sale e sinceramente siamo curiosi di scoprire quale società del mercato nostrano deciderà di farsene carico quando questo avverrà e se avverrà. Il regista, con all’attivo qualche cortometraggio, firma per quanto ci riguarda un un’opera “selvaggia” e grezza, libera da certi schemi predefiniti di genere e autarchica nella sua indipendenza produttiva, creativa, formale e drammaturgica, ma che a conti fatti risulta essere uno di quei tanti “vuoti a perdere” destinato a finire nella soffitta della dimenticanza. Poi se andrà diversamente, buon per l’autore e per coloro che hanno creduto nel suo progetto. Nel frattempo in quel del Lido ci siamo trovati a confrontarci con un’opera sulla quale abbiamo moltissime riserve. Ma facciamo un passo indietro per focalizzarci su cosa non funziona tanto da generare il cortocircuito di cui sopra.
Diciannove può essere letto come un capitolo di un romanzo di formazione, autobiografico probabilmente tanto da renderlo personale, ma nulla di più
Diciannove racconta la storia di un diciannovenne di nome Leonardo nativo di Palermo che lascia Londra, dove studia economia, per trasferirsi a Siena ed iniziare la facoltà di lettere. Sarà per lui un anno accademico di solitudine e immersione nelle letture di classici del trecento, sporadica e strana socialità e confronti con compagni di università e coinquilini. Concepito come l’indagine di un ragazzo di 19 anni, il film è una storia di formazione che osserva spontaneamente lo stato emotivo di un giovane in un periodo confuso della sua vita. Lo spettatore trascorrerà un anno in sua compagnia tra le quattro mura di un appartamento sommerso di libri, fugaci trasferte in quel di Milano e Torino per visite ad amici e parenti, per entrare in contatto con le ossessioni, le insicurezze e le idiosincrasie del personaggio principale. Ne viene fuori un viaggio introspettivo che secondo noi non andrebbe circoscritto al filone del coming-of-age, nonostante tematiche e stilemi comuni e affini, perché non ha la pretesa di essere un manifesto generazionale. Semmai può essere letto come un capitolo di un romanzo di formazione, autobiografico probabilmente tanto da renderlo personale, ma nulla di più. Un po’ come accaduto non troppo tempo fa con l’esordio di Filippo Barbagallo, Troppo azzurro. Anche in quel caso si assisteva alla versione moderna de I dolori del giovane Werther, ma in chiave ancora più sofferente e pessimista nel mostrare il girovagare tra luoghi, affetti, amori, indecisioni, timidezze, distrazioni e clamorose maldestrezze del protagonista. La differenza sostanziale e non trascurabile è che almeno nel film del collega c’erano delle briciole di trama da seguire per arrivare all’epilogo, cosa che invece in Diciannove non vi è traccia.
Su Diciannove pesano scelte di montaggio che lasciano a desiderare, che nei 109 minuti a disposizione oltre a fare smarrire la bussola al fruitore generano nella narrazione voragini inspiegabili
Certe volte chi siede dietro la macchina da presa dimentica che al cinema si dovrebbero raccontare delle storie. Diciannove non è una di quelle, ma solamente un susseguirsi randomico di situazioni che ci conducono al seguito del protagonista, un Manfredi Marini che all’occorrenza nei panni di Leonardo si tramuta nel clone del regista, girando a vuoto come un criceto in gabbie fisiche e mentali che lui stesso si crea. E questi giri a vuoto che non portano nulla di concreto allo spettatore, tantomeno emozionale ed empatico, sono accentuati ulteriormente da scelte di montaggio che lasciano alquanto a desiderare, che nei 109 minuti a disposizione oltre a fare smarrire la bussola al fruitore generano nella narrazione voragini inspiegabili. Vedi ad esempio il passaggio dalla scena dell’entrata nell’ambulanza fuori dalla discoteca milanese al rientro nella camera dell’appartamento in quel di Siena. Cosa sia accaduto nel mentre non è dato saperlo, poiché omesso da un taglio di montaggio come altri presenti lungo la timeline davvero incomprensibili. C’è poi anche il problema della mancanza di una coerenza stilistica e formale, con Tortorici e il suo entourage che sembrano ragionare scena per scena piuttosto che sull’ensemble, cercando soluzioni visive e grammaticali se vuoi valide ma a conti fatti fini a se stesse. Il tallone d’Achille, che alla lunga diventa sempre più un ostacolo insormontabile per l’opera, sta dunque nell’incapacità del regista o nella sua ostinata volontà autoriale di consegnare allo spettatore un racconto che si possa definire tale ma solo una bozza, tra l’altro priva di una compattezza e di unità stilistica che lo accompagni dal primo all’ultimo fotogramma utile.
Diciannove: valutazione e conclusione
Al suo esordio nel lungometraggio sotto l’ala protettiva e produttiva di Luca Guadagnino, il regista Giovanni Tortorici firma un’opera autobiografica e intima che si veste da coming-of-age, assecondandone e facendosi carico di stilemi e tematiche caratteristici, ma che alla lunga non può e non deve essere considerato un ritratto generazionale, semmai un capitolo di un romanzo di formazione che pedina nell’arco di un anno nel suo girovagare tra città e persone un Werther ancora più pessimista, senza stimoli e confuso. Difficile riflettersi per chiunque in un film in cui l’autore sembra dialogare con se stesso e non con un potenziale spettatore. Le emozioni di fatto restano in ghiacciaia ed empatizzare con un personaggio come quello disegnato dall’autore è impossibile a causa di un perenne distacco che si viene fisiologicamente a creare. Ecco che i tentativi di avvicinamento a lui e al suo mondo vengono rispediti al mittente. A pesare come un macigno sul risultato è l’assenza di un racconto vero e proprio a scapito di una successione di situazioni che si ripetono e potrebbero continuare all’infinito senza mai giungere a qualcosa di concreto. Le voragini aperte dal montaggio dunque non si possono nemmeno definire buchi nella trama, poiché di trama non c’è traccia, così come di un discorso formale univoco e funzionale che invece preferisce ragionare scena per scena piuttosto che guardare all’insieme.