Venezia 80 – Die Theorie von Allem: recensione del film di Timm Kröger
Una regia raffinata ma una sceneggiatura approssimativa. Piacerà? Tutto è relativo, tutto dipende dal vostro modo di apprezzare la settima arte!
C’è molta fisica in Die Theorie von Allem (The Theory of Everything), ma non abbastanza chimica! Il film diretto da Timm Kröger e presentato alla 80ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ci lascia affacciare su un mondo affascinante, fatto di viaggi nel tempo, storie d’amore e omicidi. A frenare questo turbinio di ingredienti è però un ritmo farraginoso, che tiene inchiodata l’opera a una dimensione cinematografica retrò, in un tempo della settima arte che sembra essere ormai sepolto.
Aiutato in fase di sceneggiatura da Roderick Warich, Kröger innesca il dubbio fin dal principio per non chiarirlo di fatto mai, piuttosto lo ingarbuglia sempre più fino a farci perdere la trebisonda. L’uso di un elegante bianco e nero va di pari passo, in fin dei conti, col periodo di riferimento, dal momento che Die Theorie von Allem è ambientato nel 1962 e percorre a ritrovo la storia di Johaness Leinert (Jan Bülow), uno studente di fisica alle prese con la tesi di laurea e con una teoria astrusa a cui nessuno sembra dare molto credito.
Le Alpi Svizzere fungono da ambientazione perfetta di una narrazione che si dipana tra thriller e mistero, inserendo anche la burrascosa love story tra il protagonista e l’affascinante Karin (interpretata da Olivia Ross) e trascinandoci in un mix di strani avvenimenti che tanto lo fanno rassomigliare alla serie Dark. I riferimenti estetici, tuttavia, sembrano dirottarci verso un cinema più anni ’40, addirittura verso autori come Alfred Hitchcock e Fritz Lang. L’estetica, insomma, è molto raffinata! Ci si perde volentieri tra le montagne, tra le nubi, nelle stanze e dentro i letti, ma la bellezza non basta a farci restare, poiché la storia non sembra decollare mai. Un po’ come la tesi del protagonista, incapace di trovare giustificazione logica alla sua teoria sul multiverso, anche il film non trova pilastri abbastanza solidi da permettergli di sostenersi e di farci sostenere una visione tanto impegnativa.
Timm Kröger fa un esercizio di stile narcisistico: le immagini si affogano dentro se stesse ma non dialogano con lo spettatore, restano monche.
Vorremmo che il film non ci perdesse mai d’occhio, continuando a sospirare meraviglia ai nostri occhi come in quella scena in cui Karin suona imperterrita il piano senza staccare lo sguardo da Johaness. Ma questo non accade e Die Theorie von Allem (The Theory of Everything) perde per strada, progressivamente, la nostra attenzione.
Die Theorie von Allem (The Theory of Everything): valutazione e conclusione
La fotografia di Roland Stuprich si adegua alle richieste di una regia che pretende un ritorno al passato senza tener conto della freneticità del presente e senza dialogare con altri film del genere apprezzati dal pubblico. Al netto del buon montaggio di Jann Anderegg, delle musiche di Diego Ramos Rodríguez, dei costumi di Pola Kardum, del trucco di Virginie Thomann e Kiky von Rebental e chiaramente delle magnifiche interpretazioni di Jan Bülow, Olivia Ross, Hanns Zischler, Gottfried Breitfuß, David Bennent e Philippe Graber, Die Theorie von Allem (The Theory of Everything) si rivela un film dall’estetica raffinata ma dalla sceneggiatura fin troppo approssimativa, che parla di futuro ma resta ancorato al passato.
Se amate il cinema di una certa epoca e la dilatazione del tempo non vi disturba, allora lo apprezzerete. Viceversa, se la modernità ha preso il sopravvento sul vostro modo di usufruire della settima arte, allora vi sentirete spettatori in gabbia, sempre a un passo dalla svolta, che però non ci sarà, ancorandovi a un’idea geniale, ma espressa a metà.
Prodotto da Ma.ja.de. Fiction, The Barricades, Panama Film, Catpics Coproductions e presentato al Festival di Venezia 2023, il film arriva in Italia distribuito da Movies Inspired.