Cannes 2019 – Diego Maradona: recensione del documentario di Asif Kapadia
In Diego Maradona, Asif Kapadia mette in luce il dualismo fra persona e personaggio, responsabile della vorticosa ascesa e rocambolesca discesa di uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi.
Asif Kapadia (già regista del documentario su Amy Winehouse, Amy, presentato a Cannes 2015) ha una visione ben precisa degli effetti collaterali del successo, spesso causati dagli stessi artefici del mito, noncuranti delle conseguenze sul piano privato di una celebrità indiscriminata, tale da far pensare al pubblico di trovarsi di fronte a un impersonale e indistruttibile Dio da idolatrare.
Diego Maradona, invece, è stato ed è un ragazzo e un uomo fragile, che dalla fatiscente realtà di Villa Fiorito, in Argentina, si è trovato catapultato nel calcio dei grossi numeri, partendo dal Buenos Aires, trovando un allenatore intransigente e vari infortuni nel grande Barcellona, per poi preferire la realtà apparentemente più tranquilla del Napoli, luogo e squadra in cui il Pibe de oro trova casa e un successo delirante.
Ed è proprio a partire dall’improbabile acquisizione del calciatore da parte del Napoli che vennero gettate le basi di quelle insinuazioni maligne che – quasi come in una profezia – decretarono la discesa negli inferi del calciatore, emotivamente poco equipaggiato per gestire l’onda d’urto dell’entusiasmo di una squadra rinata grazie a lui, ma che allo stesso tempo lo ha assorbito completamente con un affetto soffocante e la possibilità di avere tutto, soldi, feste, tante donne ma soprattutto la cocaina, adeguatamente protetto per sfangare inizialmente i controlli anti-doping. Gli stessi che ne decretarono la fine quando Diego cominciò a diventare un personaggio scomodo e non più amato, segnando il famigerato gol contro l’Italia nella semifinale di Italia 90.
La contrapposizione fra uomo e personaggio
Diego Maradona sintetizza bene il dualismo fra uomo e personaggio, dove “Diego non era Maradona ma Maradona si portava Diego ovunque“, trascinando un ragazzo umile, fragile e pieno di talento in una dimensione di onnipotenza che poco si addiceva a una personalità insicura, alla perenne ricerca di consenso.
Ecco allora che il documentario di Asif Kapadia si sofferma su tale contrapposizione, mettendo in luce come lo stesso meccanismo che ha sfruttato la capacità di Maradona di utilizzare il campo come magica valvola di sfogo, calibrandosi costantemente sulle esigenze della partita, sia stato responsabile della sua irreversibile caduta, nonostante le numerose richieste del calciatore di essere venduto per finire la carriera in modo meno esposto, più ritirato. Lontano da tutte quelle tentazioni – donne e droga in primis – alle quali non ha mai saputo resistere, con tutte le conseguenze del caso.
Kapadia ricostruisce entrambi le dimensioni – calcistica e privata – di Maradona attraverso il sapiente montaggio di materiale di repertorio e inedito, fra interviste e testimonianze delle persone più vicine al calciatore. Da Fernando Signorini, suo insostituibile personal trainer, che individuò da subito nella grande intelligenza tattica il maggior talento del calciatore, all’amata madre, con la quale non è mai mancata una telefonata dopo ogni partita; c’è Cristiana Sinagra, la donna con cui ha avuto un figlio illegittimo (Diego jr), riconosciuto solo molti anni dopo e la compagna di una vita Claudia Villafañe, punto di partenza e ritorno di tutte le azioni riprovevoli di un uomo che sembra essere rimasto un bambino, incastrato nella difficile gestione delle proprie pulsioni.
Ma è anche e soprattutto in questa strenua e inaccettabile ingenuità che si individua l’unicità di Diego, un uomo che avuto una vita incredibile, prematuramente rivoluzionata in peggio dall’improvvisa mancanza del suo unico reale punto di riferimento: gli applausi provocati dalle sue prodezze sul campo. Un uomo che – dopo gli eventi di Italia 90 – non ha sopportato di non essere più amato come prima, che forse non ha mai capito a fondo cosa sia andato storto ma che non è riuscito a fermare la propria auto-distruzione, culminata con la sospensione per uso e spaccio (o meglio condivisione) di sostanze stupefacenti.
Un uomo che – tuttavia – ancora oggi conserva negli occhi e nel fisico ormai trasfigurato quell’ardore timoroso che lo ha reso una leggenda indimenticabile del calcio mondiale.