Venezia 79 – Dogborn: recensione del film di Isabella Carbonell
Dogborn, il primo lungometraggio di Isabella Carbonell, presentato alla Settimana della Critica 2022, è un film visivamente lisergico e ritmicamente dilatato, in cui la qualità dell'immagine sovrasta il livello della scrittura.
Due gemelli sulla trentina vivono ai margini della ricca società svedese in Dogborn: nessuno vuole vederli e ancora meno è disposto a offrir loro l’occasione di archiviare un’esistenza randagia, fatta di espedienti e di fatica quotidiana per arrivare al giorno dopo.
Dogborn: due gemelli ai margini divisi da una coppia e da un dilemma
Lei – la “sorella grande”– è nata pochi secondi prima di lui, e il primato nella genealogia simbolica, benché minuscolo, si trasla in un atteggiamento prepotente e incendiario che rivolge non soltanto al fratello ma al mondo intero, in una risposta alle sfide esterne e alla frustrazione dell’esclusione che si manifesta per esplosione e non contempla alcuna soluzione riflessiva. Lui, il gemello maschio, è invece taciturno e compresso, come appeso a un perenne stato di stupefazione, di intimo contorcimento, ripiegato su di sé per schermare ogni affetto e inibire l’affiorare dei sentimenti e degli impulsi.
La relazione duale e conchiusa dei due gemelli s’incrina quando viene loro chiesto di trasportare una merce molto particolare: due giovani ragazze orientali, una più grande, l’altra poco più che bambina. La frattura che si apre, conseguenza di un coacervo di dilemmi etici e materiali e di differenze che emergono anche tra due che hanno condiviso lo stesso utero e tutta la vita fuori, segna l’inizio di un processo di separazione e, parallelamente, del disgelo emotivo del fratello, reso possibile dal rapporto che questo instaura con la più piccola delle due giovani ‘ospiti’.
Dogborn continua il discorso cominciato dalla regista nei suoi corti precedenti: uno studio sulla coppia e sulla dualità (sentimentale, amicale, fraterna)
Dogborn, lungometraggio d’esordio della regista svedese Isabella Carbonell, continua l’indagine iniziata nei suoi cortometraggi – da Boys, del 2015, al più recente Brother (2019), senza dimenticare la prova mediana, Maniacs (2016) – in cui lo speculum è sempre posto sul rapporto a due, che sia sentimentale, amicale o sororale/fraterno.
La coppia quale dimensione in cui le individualità si fondono o trovano il loro incastro perfetto è un’illusione, perché la responsabilità soggettiva e l’incompatibilità dell’individuo all’altro, anche all’altro più amato, restano due condizioni ineluttabili dell’umano, destinato a incontrare sé stesso nel simile e a scoprire, amaramente, che se è vero che l’alterità riflette, anima, vitalizza, apre la mancanza da cui passa il desiderio, allo stesso tempo ugualmente frustra e non corrisponde, non restituisce una risposta univoca all’enigma che rappresenta.
Per sviluppare il tema del terzo elemento, del campo di mediazione tra le singole parti di una diade, una dimensione terza qui comunque sdoppiata nelle figure delle due ragazze asiatiche, il film sceglie un’intonazione ibrida tra noir e racconto urbano di formazione, alternando momenti psichedelici, del resto in continuità con il passato di videomaker musicale della regista, a passaggi più lirici, come, ad esempio, quello in cui il fratello gemello accenna qualche passo di danza insieme alla silenziosa preadolescente giapponese che prova a replicare le movenze di una ballerina ammirata alla tivù.
Eh sì, perché lo specchio condanna: guardiamo gli altri e desideriamo fare quello che fanno loro, ma l’imitazione, del gesto come del desiderio, non può procedere nel senso di un’identità perfetta, ma di un’identità che residua nella differenza, che sconfina nel dissimile, nell’avanzo che rivela la singolarità irriducibile a normazione.
La poetica della cineasta costeggia dunque virtuosamente, in una coerenza apprezzabile, lo stesso vortice problematico delle opere precedenti e trova in un’ossessione-cardine il suo asse di sostegno, eppure, su questo film lungo, ed è il suo limite maggiore, pesa l’immaturità dello stile che emerge non tanto nella strutturazione drammaturgica quanto nella e dalla prevaricazione dell’immagine sulla scrittura, friabile nel ritmo, inutilmente dilatato a favor di estetismo, in un’avvolgenza che non serve la rappresentazione, ma anzi la ostacola.