Dolemite Is My Name: recensione del film Netflix
Una commedia da non perdere, con Eddie Murphy nei panni del comico, musicista, cantante, attore e produttore cinematografico americano Rudy Ray Moore.
Se esiste al mondo una commedia che unisce Eddie Murphy, Wesley Snipes, Snoop Dogg e Chris Rock, è imperativo morale vederla. Dolemite Is My Name, diretto da Craig Brewer e da una sceneggiatura di Scott Alexander e Larry Karaszewski, è la storia vera del comico, musicista, cantante, attore e produttore cinematografico Rudy Ray Moore.
Los Angeles. 1970. Rudy Ray Moore è un cantante fallito, vive barcamenandosi tra il suo lavoro di cassiere in un negozio di dischi – affiancato da Snoop Dogg – e la sua carriera mai realmente decollata. Rudy, nell’ultimo tentativo di racimolare del materiale per le sue scenette nei locali underground, registra le rime, le battute e le storie volgari e grossolane di un gruppo di senzatetto. Le loro canzonette sporche e sfacciate accendono una luce dentro la mente di Rudy che sceglie, intelligentemente, di riadattarle e proporle durante i suoi cabaret underground.
Dolemite Is My Name: Eddie Murphy torna con una commedia carismatica e valida
Il successo dei suoi monologhi favoriscono prima la sua – seppure limitata – carriera di cantante, e poi quella cinematografica: Rudy, pur consapevole della sua totale mancanza di esperienza cinematografica, decide di autofinanziarsi un suo film blaxploitation. Così nasce Dolemite, una produzione a basso budget che orbita attorno alle tre cose chiave che Rudy vuole vedere in un film: nudità, commedia e kung-fu.
Dolemite Is My Name è un biopic strepitoso sull’ascesa musicale e cinematografica di Rudy Ray Moore, definito “the Godfather of Rap”, un uomo che attraverso il suo personaggio di Dolemite ha colto e reinventato le storie folcloristiche afroamericane, come The signifying monkey. Molte persone affermano che l’hip-hop sia nato con il lavoro di DJ Kool Herc in una serata estiva del 1973 nel Bronx.
Un biopic strepitoso sull’ascesa musicale e cinematografica di Rudy Ray Moore
Altri asseriscono che l’hip-hop abbia mosso i primi passi nel 1979 grazie alla Sugarhill Gang con “Rapper’s Delight”. Una decina di anni prima, Rudy Ray Moore stava incidendo il suo album Eat Out More Often, in cui il comico, con una band di supporto, declamava poesie profane in rima e raccontava storie radicate nell’anima afroamericana, storie di sfruttamento, prostituzione, imbroglioni, ladri, incluso un personaggio chiamato Dolemite. Forse Rudy Ray Moore non ha inventato l’hip hop ma sicuramente ha fatto in modo che quel movimento diventasse quel che poi è stato.
È passato molto tempo da quando abbiamo potuto vedere Eddie Murphy in una commedia densa, carismatica e valida. Murphy – una forza pionieristica della commedia anni ’80 e dei primi anni ’90 – negli ultimi anni non ha quasi mai convinto né pubblico né critica con i suoi lavori, a partire da Norbit a L’asilo dei papà. Qui Murphy è in stato di grazia: la sua interpretazione è assolutamente credibile, dalle scene di stand-up comedy, che scoppiettano grazie al suo carisma, fino a quelle più drammatiche, che servono per donare tridimensionalità e complessità al personaggio di Rudy.
Dolemite Is My Name: la commedia Netflix da non perdere
Dolemite Is My Name è facilmente paragonabile a racconti simili come The Disaster Artist o Ed Wood, altri film che ci immergono nella vita di un gruppo di disadattati che si sono cimentatati nella realizzazione di un film bruttissimo, ma che riuscirà alla fine a trovare un proprio pubblico di culto. Dolemite Is My Name però compie ancora un altro passo verso il pubblico, poiché riflette come sia cambiato l’atteggiamento verso il genere della blaxploitation, ufficialmente tramontato alla fine degli anni ’70, e come quei film in verità fossero molto popolari e polarizzanti (quasi sempre rappresentavano gli afroamericani in contesti poveri, popolati da prostitute e spacciatori).
Per questo è essenziale scoprire (o riscoprire) Dolemite Is My Name, perché riesce a catturare quella gioia, quel successo incredibile, e ci riporta alla mente quanto Moore avesse ragione da vendere nel credere che la vera immortalità risiedeva sullo schermo, dove il raggio di luce che fuoriesce dal proiettore è come un’incisione in una caverna.