Don’t Cry, Butterfly: recensione del film da Venezia 81
Un film dalla cifra autoriale riconoscibile e tuttavia accessibile a tutti.
Scritto e diretto dalla talentuosa cineasta vietnamita Duong Dieu Linh (classe 1990), Don’t Cry, Butterfly, presentato in concorso alla Settimane Internazionale della Critica 2024 durante Venezia 81, letterariamente ed esteticamente maturo, mostra una madre e una figlia ripararsi in fantasie di fuga o di seduzione per non soccombere alle mortificazioni inflitte dall’indifferenza maschile. Nell’area metropolitana di Hanoi che potrebbe, però, essere quella di qualsiasi altra città del mondo.
Don’t Cry, Butterfly: una storia di solitudine femminile che, cedendo al fantastico, si salva dalla disperazione
“Perché dare a qualcosa di disgustoso come i genitali nomi di animali tanto belli come uccelli e farfalle?” Lo chiede Ha, poco più che ventenne, prossima (con punto interrogativo) a lasciare i sobborghi metropolitani di Hanoi per un Paese straniero in cui diventare architetta, al suo vicino di casa, un coetaneo con cui trascorre, ogni pomeriggio, del tempo in cameretta, in un prolungamento innaturale dell’infanzia. Nella sua battuta, espressa con poetica ingenuità, Ha avvolge e copre la rabbia inespressa, forse culturalmente inesprimibile, per il padre fedifrago – ha scoperto dai social del suo flirt con una giovanissima parente – e la determinazione inconscia a non volerne sapere nulla della sessuazione, origine di ogni ‘male’. Nei capelli tagliati corti, nell’aspetto androgino, nell’abitudine di stendersi sul tappetino da yoga ad ascoltare mantra motivazionali che delegano a un’essenza smaterializzata – voce senza nome – il compito di traghettarla verso l’agognata felicità, nei sogni a occhi aperti di una fuga futura verso la terra promessa della realizzazione professionale, Ha cerca un alibi o un sollievo di fronte all’urgenza di un reale che mortifica: sua madre, umiliata dal marito, e quindi anche lei, ugualmente invisibile agli occhi del padre, inconsciamente portata, a causa dell’insufficienza del desiderio paterno – verso sua madre, verso di lei – a chiudersi, annaspante, dentro un utero contenitivo-costrittivo, pur anelando allo strappo emancipatorio, alla soggettivazione liberatrice, al salto svezzante nell’ignoto.
In Don’t Cry, Butterfly, lungometraggio scritto e diretto con intelligenza dalla cineasta vietnamita Duong Dieu Linh in concorso alla Sic, si depositano, velo dopo velo, numerose riflessioni e, di conseguenza, possibilità di lettura. Le protagoniste sono, in una stretta duale rigorosa, una madre e una figlia, Tam e Ha. Della seconda, è già stato rapidamente abbozzato un ritratto; della prima, indoviniamo quasi subito che è impiegata in un “castello delle cerimonie“, una location eletta per matrimoni di cui si occupa con grande senso di responsabilità. Dopo la scoperta di essere tradita dal marito – la ferita le viene inferta nella materia che meglio, per ragioni personali (è una sposa fedele e sollecita da più di vent’anni) e professionali (lavora tutti i giorni a contatto con giovani sposi), dovrebbe conoscere –, Tam non affronta chi le ha arrecato un torto, ma si rivolge a una guida spirituale, trovata ‘algoritmicamente’ sui social, la quale, analizzandole i palmi delle mani, la disposizione e la forma dei suoi nei, individua nei segni dimenticati nel corpo le tracce di una predestinazione alla sofferenza esistenziale da interrogare e da cui ripartire per rifondare la sua vita. Tam riprende il gioco della mascherata femminile, abbandonata forse troppo precocemente dopo la maternità o perché reclamata da un quotidiano affollato di fatiche, e allora si sottopone a dei trattamenti, si fascia in un abito rosso troppo stretto, prova a sedurre un ex compagno di scuola: cerca così di scuotere il marito dormiente, di ridestarne l’attrazione. Ma i guru si sbagliano: non basta “crederci” o “manifestare” perché qualcosa di desiderato si avveri. O forse sì.
Don’t Cry, Butterfly: valutazione e conclusione
A cospetto di un troppo insopportabile di realtà castrante che impaluda nell’indesideratezza (e, facilmente, in una percezione di indesiderabilità), a fronte di un difetto allo stesso modo affossante di realtà vivificante (in uno sguardo maschile che riconosca e avvalori il diritto a entrare nel campo visivo, a mostrarsi nel mondo), le donne del film non ripiegano nel lamento, ma scelgono una forma di passività (o di apparente attività) differente: gli spiriti che vedono infestare la casa, infiltrarsi dai soffitti e assumere consistenza liquida non sono modalità di sfondamento dei confini tra realtà e fantasia, ma veri e propri stratagemmi di salvezza psichica, tentativi di reagire creativamente, di proteggersi dall’incontro ustionante con la noce del vero, con quello che farebbe loro più male. Le ‘presenze’ materializzano concrezioni simboliche del materno: un surplus d’acqua in disarmonia con un paterno che appunto ignora quel che ha, e anzi desidera altrove, puntualmente fuori casa.
Sorprende quanto il piano civile sul quale il testo filmico sembra far scivolare il suo cuore psicoanalitico inclini verso la rappresentazione di una società, quella vietnamita, che, se è vero che non perde del tutto i suoi caratteri particolari, si presta in ogni caso a farsi dispositivo e specchio di dinamiche universali. Benché riceva dal suo patrimonio di credenze popolari, Don’t Cry, Butterfly è un film in cui tutti possono riconoscere la propria difficoltà a trovare un senso a ciò che succede o non succede loro. Da lì, da questa ostinazione anche molto occidentale a dislocare il significato del proprio vivere, a cercare fuori di sé l’autorizzazione a scendere nell’arena, da questa spasmodica ricerca di rassicurazione e incoraggiamento dall’alto (e dall’altro), come mostrato nell’opera, derivano la fortuna e la proliferazione delle pagine virtuali dedicate alla rivelazione dei significati reconditi di casualità, alla spiegazione dei fenomeni oggettivi secondo parametri mistici. Il che non significa per forza mistificare, ma senz’altro esigere un atto di fede, credere nell’impossibile. La speranza è un’illusione salvavita, che non guarisce, ma cura, allontana la morte.
Le donne di Duong Dieu Linh, denegate nella loro aggressività, tenacemente prive di rabbia sebbene offese, sofferenti non perché malviste, ma perché non viste, danno udienza, non senza angoscia, al perturbante, scommettono sulla possibilità della sua esistenza, della sua inquietante significatività. Così facendo, accogliendo nella realtà fenomenica squarci intrusivi di un’altra scena fantomatica e fantasmatica, provano a elaborare con grazia, adottando il linguaggio poetico-terrifico del sogno, la propria impotenza. Cercano di non darla vinta – di non dare vita – alla disperazione. Sono donne che non cedono alle fanfare falliche, agli abbagli di un trasloco nel regno del maschile; vogliono, anche se bloccate e sterilizzate da un nucleo familiare (e da una società) che le ha depotenziate, generare altro, trasformare l’ingiustizia di una mancanza in una nuova pienezza, in una (ri)nascita. Tam e Ha, madre e figlia, non si accontentano di godere narcisisticamente della condizione di vittime; pur goffamente, provano a ripartire: “Non piangere, farfalla!”. La visionarietà è un compromesso, una soluzione provvisoria al sentimento infernale dell’insignificanza, all’alienazione a sé stesse quale effetto del mancato riconoscimento dalla (e della) parte altra, da (e di) un’alterità maschile. Don’t Cry, Butterfly è un film dalla cifra autoriale riconoscibile e tuttavia accessibile; un film che affronta con sensibilità risolutamente singolare e incantevole mano, non piegata a precedenti e pretesti ideologici, temi radicali e arcani, antichi e ipercontemporanei.