Berlinale 2018 – Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot: recensione
L'ultimo film di Gus Van Sant, Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot, racconta la vita del fumettista tetraplegico americano John Callahan tra un passo falso e una solida struttura generale
Quando un film prende l’avvio in medias res, nel bel mezzo di una conversazione di cui sembra quasi facessimo parte anche noi e dalla quale ci fossimo solo distratti per un momento, ha quel potere particolare di farci sentire coinvolti; di catturarci subito tra le sue maglie narrative. Così, infatti, inizia Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot, ultima fatica di Gus Van Sant in concorso alla 68esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Biopic dal sapore intimista sul fumettista tetraplegico americano John Callahan, morto ormai otto anni fa, il film si racconta balzando da un piano temporale all’altro in un gioco di analessi e prolessi capace di mantenere sempre una certa chiarezza espositiva.
Alcolizzato dall’età di 13 anni, John Callahan (Joaquin Phoenix) sembra procedere a tentoni nella sua vita, saltando da un party all’altro e affogando nell’alcol. È a una di queste feste che incontra Dexter (Jack Black) che lo convince ad andare con lui in un posto migliore, dove le ragazze sono più fighe e la sbronza è assicurata. La macchina su cui salgono comincia a ondeggiare pericolosamente e la scena successiva mostra John in un pronto soccorso. La diagnosi è definitiva: non potrà più camminare. Da qui comincia un percorso difficile, quello verso la sobrietà, l’accettazione della propria condizione, il perdono di sé e degli altri, i 12 passi che John dovrà fare per iniziare davvero a vivere.
Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot e le magistrali prove attoriali di alcuni dei suoi protagonisti
Basato sull’autobiografia di Callahan, Don’t Worry non dimentica anche la produzione fumettistica dell’uomo. Così, in momenti di puro sperimentalismo indie, alla narrazione vengono intervallate alcune delle sue vignette più famose e irriverenti che, mano a mano, cominciano ad animarsi. Se il fumetto sarà però parte del coronamento del suo percorso di guarigione, è il problema dell’alcolismo il grande protagonista di questo film. Memorabile è una delle scene in cui meglio traspare la cifra di un attore del calibro di Phoenix quando, rimasto solo nella sua cucina, una bottiglia gli sfugge di mano e finisce sotto al divano mentre un’altra bottiglia di vodka lo sbeffeggia dall’alto di una mensola. Il dolore e il desiderio bruciante di bere cui ti spinge l’astinenza sono palpabilissimi nello sguardo e nella tensione corporea di un Phoenix/John costretto sulla sedia a rotelle.
La dipendenza all’alcol è ciò che, alla fine, spinge John a contattare un gruppo di Alcolisti Anonimi con il quale inizierà poi il percorso di guarigione dei 12 passi. Insieme ad altri piglets (maialini) – nome con cui Donnie (Jonah Hill), il coach di queste sedute, chiama coloro che ha deciso di sponsorizzare – John comincerà ad affrontare i vari passi del suo percorso che lo porteranno ad affermarsi come persona e come artista. Tra questi abbiamo il tardivo momento di riconciliazione con Dexter che offre a Black l’occasione di dimostrare le sue doti in una delle scene più difficili dove il rischio di scadere nel sentimentale e nel patetico è pericolosamente dietro l’angolo.
Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot: tra un passo falso e una solida struttura generale
Tra i numerosi personaggi secondari che si affastellano durante la narrazione è triste vedere come un ruolo che poteva offrire molto di più sia alla sua attrice che all’economia del film è stato ridotto a quello di mera donna oggetto. Quando Annu (Rooney Mara) entra in scena come assistente nella riabilitazione di John, le premesse per creare un personaggio interessante ci sono, ma Van Sant decide invece di non concedere alcuna possibilità ad Annu che, invece, sparirà dal film se non per rientrarci sporadicamente in tenuta da hostess di Air Scandinavia. Una bambola senz’anima. Un’occasione sprecata. Dal canto suo, Mara poteva far ben poco per dare vita a un personaggio così mal scritto, finendo per aggiungere al suo curriculum una nuova, evanescente perfomance.
È però l’aria generale che si respira a fare di Don’t Worry un buon film, forse uno dei migliori dal Milk del 2008, non a caso l’altro unico biopic del regista. In quasi due ore, il film si porta avanti in modo piuttosto convenzionale dovendo seguire, passo dopo passo, i dettami del percorso spirituale laico cui John si dedica. Nonostante questo però, non sono pochi i momenti ben riusciti, in cui si toccano le giuste corde drammatiche ma senza mai esagerare – anche se forse ci saremmo volentieri evitati l’apparizione del fantasma della madre che fa tremendamente kitsch.