Dopo Oliver: recensione del dramedy targato Netflix
Un film ricco di buoni sentimenti senza particolari guizzi creativi, ma una trama tanto prevedibile quanto godibile.
Dopo Oliver è un dramedy disponibile in streaming su Netflix a partire dal 5 gennaio 2023: la pellicola è il debutto alla regia dell’attore e sceneggiatore Dan Levy, una riflessione sul dolore e il lutto che lo vede anche nel ruolo di attore protagonista. Imperniare un’opera così delicata sulla propria performance, dopo averne curato la struttura narrativa, i dialoghi e la regia, è un’arma a doppio taglio che non sempre ottimizza la riuscita del prodotto artistico. Dopo Oliver è una pellicola che ha il cuore al posto giusto, parte da un presupposto importante e vuole comunicare un messaggio ben preciso: nonostante la commistione di elementi e una certa ricerca nella grammatica cinematografica, potrebbe non centrare pienamente il punto.
Dan Levy, attore talentuoso come riconosciuto e percepito dagli spettatori dell’acclamata serie TV Schitt’s Creek, racconta una storia di perdita e sopravvivenza, mostrando – o almeno provando a mostrare – tutte le sfumature del lutto. Ma la sua soffre di una certa incoerenza, una serie di errori d’aderenza che non detonano mai la bomba emotiva su cui è costruita la forma filmica.
Dopo Oliver: un dramedy godibile e dimenticabile sul lutto, Dan Levy non centra il punto
Marcus e Oliver, i protagonisti del film interpretati da Dan Levy e Luke Evans, sembrano una coppia da film: vivono una vita agiata a Londra, nel loro grande appartamento, e a Natale sono circondati di amici con cui festeggiano tra una risata e un brindisi. Oliver, la star della coppia, è uno scrittore di grande fama, impegnato in eventi mondani e sociali. La sera di Natale deve partire per Parigi, ma un incidente improvviso gli toglie la vita proprio davanti agli occhi di suo marito. Marcus, in una scelta impulsiva e al contempo naturale dopo il trauma, decide di non affrontare il lutto. Riempie il vuoto lasciato da Oliver con distrazioni di ogni tipo, cercando di mettere in un cassetto la realtà del suo infinito dolore. Arriva persino ad ignorare una lettera che suo marito gli aveva lasciato prima di morire.
Ma gli amici di sempre, Sophie e Thomas, interpretati con carisma da Ruth Negga e Himesh Patel, intervengono nella lenta dissociazione di Marcus, offrendogli consigli preziosi dall’alto della loro stessa fallibilità e dal loro stesso dolore. Il viaggio a Parigi appare come un purtgatorio necessario, una trafila di prove da superare e un evidente sforzo fisico, mentale, spirituale per muoversi dalla condizione di torpore che il dolore ha impresso tra corpo e animo. La realtà, come la vita, è brutale: nulla è come Marcus credeva, l’esistenza dell’amato e brillante, abbagliante, marito Oliver era ricca di ombre, ambiguità e segreti. La rinascita appare la meta finale, l’ascesa all’illuminazione dopo aver avuto il coraggio di affrontare l’inferno, la terra di mezzo, le attese e i grigiori del grande mostro chiamato lutto.
Ma se le intenzioni di Dan Levy sono ottime, la resa della sua epifania e della lotta necessaria per sopravvivere alla morte decisamente meno. La pellicola ha una sceneggiatura inconsistente, con dialoghi spesso lasciati cadere nel vuoto, un vuoto nel quale lo spettatore aspetta di conoscere le conclusioni e le riflessioni del protagonista sulla sua perdita. La regia contribuisce a spezzare l’effetto di profondità che manca alla struttura dello script: appena prima del climax, la scena viene tagliata di netto, troncata nell’attimo in cui dovrebbe diventare interessante, emotiva. La palette scelta per parlare di un argomento tanto delicato, teso, non mantiene una coesione con il tono della narrazione: diventa calda, poi fredda, poi nuovamente calda senza comunicare con coerenza stilistica al fruitore. Lo spettatore, al meglio, sarà completamente indifferente alla sofferenza di Marcus; al peggio potrebbe sentirsi confuso e irritato da questa scelta estetica di scarso senso artistico.
Alla fine della proiezione, è difficile riuscire a sentire qualcosa dentro di sé: che Marcus sia guarito, o abbia trovato la forza di vivere il suo dolore, al pubblico cambia davvero poco. L’intento di Levy ha un cuore, ma la regia poco ispirata e lo script frammentario cospirano affinché l’opera fallisca nell’azione di smuovere e commuovere.
Dopo Oliver, valutazione e conclusione
Dopo Oliver è una pellicola che parte da buone intenzioni e presupposti, ma la sua resa stilistica e cinematografica lascia lo spettatore in uno stato di sospensione poco propedeutico all’ emozione. Il lutto e la rinascita sono argomenti profondi e tortuosi, ricchi di sfumature oscure, ma la pellicola di Dan Levy non li mostra, lasciando lo spettatore chiuso fuori dalla vera entità del dolore.