RomaFF14 – Downton Abbey: recensione del film di Michael Engler
Tornano le vicende della Famiglia Crawley in un racconto cinematografico che per Fellowes diventa l'opportunità per consolidare ancora di più il franchise di Downton Abbey al grande salto dal piccolo al grande schermo.
Dopo sei stagioni, cinquantadue episodi e incetta di Emmy e Golden Globes tra il 2010 e il 2015, tornano le vicende della Famiglia Crawley con Downton Abbey (2019) diretto da Michael Engler – film sequel dell’omonima serie ITV/PBS ideata da Julian Fellowes (qui ancora nelle vesti di sceneggiatore), con cui torniamo nella fittizia tenuta nella campagna dello Yorkshire che dà il titolo alla pellicola; senza dubbio uno dei film più attesi della Festa del Cinema di Roma 2019.
Downton Abbey non è il primo esempio di serial televisivo capace di compiere il grande salto nel cinema. Tra i più celebri casi ricordiamo Fuoco cammina con me (1992) diretto da David Lynch, film prequel de I segreti di Twin Peaks (1990-1991) con cui scoprire gli eventi che han portato all’omicidio di Laura Palmer, e X-Files: il film (1998) diretto da Rob S. Bowman che ebbe così tanto successo da rilanciare il franchise fantascientifico di Chris Carter in formato televisivo per altre sei stagioni tra alti e bassi.
Se tuttavia nel caso di Fuoco cammina con me e X-Files, siamo più nell’ambito di film-prequel e di una chiusura/rilancio di franchise, con Downton Abbey ci muoviamo più nel terreno di ciò che è stato Serenity (2007) diretto da Joss Whedon per Firefly (2002-2003) e Deadwood (2019) diretto da David Milch per l’omonima serie in onda su HBO tra il 2004 e il 2006, ovvero di pellicole concepite perlopiù come “film per la televisione” volte non solo ad aggiungere qualcosa in più a un universo narrativo già consolidato, ma anche a dare un effettivo senso di chiusura.
Nella pellicola di Michael Engler – che verrà rilasciata nelle sale italiane il 24 ottobre 2019 – rivedremo tutti i volti noti della Famiglia Crawley e della servitù – divenuta ormai parte integrante delle vicende familiari – da Maggie Smith a Hugh Bonneville, passando per Jim Carter, Laura Carmichael, Joanne Froggatt, Michelle Dockery, Brendan Coyle, Phyllis Logan, Allen Leech, Matthew Goode, Elizabeth McGovern e Penelope Wilton.
Downton Abbey: dove eravamo rimasti?
Le sei stagioni di Downton Abbey, a dire il vero, si chiusero già in modo brillante e delicato con uno special televisivo natalizio di due ore del 2016, in cui Edith (interpretata da Laura Carmichael) – certamente il personaggio che meglio s’è saputo evolvere nel corso delle sei stagioni – completava il suo processo di emancipazione convolando a nozze con Herbert Pelham/Bertie (interpretato da Harry Haden-Patton) e tenendo con sé la figlia adottiva; raggiungendo un minimo di felicità dopo anni difficili e di rivalità fraterna con la sorella Mary (interpretata da Michelle Dockery).
Al contempo, assistiamo alla parabola discendente del Maggiordomo Jim Carson (interpretato da Jim Carter) che dopo aver dato segni di cedimento e tremore alle mani – impedendogli di poter compiere il proprio lavoro degnamente – decide di dare le dimissioni da maggiordomo di Downton; dimissioni respinte al mittente da Robert Crawley/Lord Grantham (interpretato da Hugh Bonneville) che gli assegna invece l’incarico di supervisionare e istruire Thomas Barrow (interpretato da Robert James-Collier) come maggiordomo della tenuta, a dimostrazione di come – a prescindere dai “gradi” – tra Robert e Carson ci sia un rapporto di fraterna amicizia che va oltre tutto: un esser parte della famiglia.
Nel finale televisivo si assiste anche al parto di Anna (interpretata da Joanne Froggatt) proprio nella tenuta di Downton, e al ritorno in scena del marito/valletto di Downton, Bates (interpretato da Brendan Coyle), la cui storia d’amore è stata costellata da più dolori che gioie nel corso delle sei stagioni.
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Ragion per cui, tra addetti ai lavori e fan, ci si è chiesti quanto fosse necessario un film sequel a completamento di una saga di per sé perfetta, tanto da esser entrata nei Guinness dei primati nel 2011 come show dell’anno più acclamato dalla critica.
Julian Fellowes non era evidentemente dello stesso avviso, e aveva ragione, perché il ritorno nella tenuta di Downton Abbey non è mai stato così dolce.
Downton Abbey: la forza del racconto di Fellowes è rimasta immutata, ma potrebbe non essere un bene
L’inaspettato ritorno a Downton Abbey parte sotto i migliori auspici, con panoramiche attorno alla campagna dello Yorkshire con cui Engler seguita il percorso di una lettera da Buckingham Palace sino alle mani di Lord Grantham che annuncia l’arrivo – nella tenuta di Downton – di Re Giorgio V e la Regina Maria di Teck. Siamo nel 1927, circa un anno e mezzo dopo i sopracitati eventi dello special natalizio della sesta stagione, e l’unica certezza è che nel frattempo Downton Abbey non è cambiato di una virgola.
La forza di Downton infatti, stava nella tipologia di racconto di Fellowes, con cui gli eventi che erano alla base delle singole puntate, diventavano quasi superflui, concentrandosi maggiormente sulla coralità dai fitti dialoghi, sul delicato contesto narrativo, e sulle relazioni instauratesi tra i membri della famiglia e i domestici. Generando così un forte meccanismo empatico tra pubblico e cast, con cui ci si sentiva realmente a casa, a sorseggiare il tè con Lady Violet (interpretata da Maggie Smith), a sentire le “solite” lamentele di Lady Mary, a vedere Carson & Hughes (interpretata da Phyllis Logan) dirigere la cucina e battibeccare per poi innamorarsi.
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Ed è esattamente ciò che accade nell’omonimo film del 2019, quella forza empatica di racconto non smette di stupire, tanto che l’arrivo dei Regnanti a Downton diventa quasi un pretesto narrativo per permettere a Fellowes di farci immergere nuovamente nella tranquillità della campagna dello Yorkshire e l’evento di festa in sé diventa quasi ininfluente nell’economia del racconto di Fellowes, che ha scelto evidentemente di puntare in alto per il suo “gran finale cinematografico”.
Ne consegue, tuttavia, che proprio per la tipologia di racconto scelta da Fellowes, Downton Abbey vada fin troppo con il “cambio automatico”, puntando decisamente forte sull’empatia generata dalle sei stagioni precedenti e dalla sua fan-base, ma che proprio per la stessa ragione, potrebbe non sortire gli stessi effetti se considerato come stand-alone, con un pubblico non a conoscenza degli eventi di Casa Crowley.
Downton Abbey: da Carson a Barrow, c’è ancora qualcosa da raccontare
Proprio per la tipologia di racconto di Fellowes basata più sulle relazioni tra i personaggi che non sugli eventi narrativi, Downton Abbey diventa un’ulteriore opportunità di racconto per dare gloria ad alcuni dei personaggi secondari più emblematici e caratteristici della serie televisiva, specie tra i domestici. A partire da Jim Carson che per l’occasione interrompe la pensione per tornare come Maggiordomo ufficiale di Downton su insistenza di Lady Mary, creando non pochi dissapori con Thomas (da sempre dal carattere “piuttosto difficile”); allo stesso Thomas Murrow la cui sessualità viene esplorata maggiormente, approfondendo così il contesto narrativo dello Yorkshire dell’Inghilterra degli anni Venti, dove l’omosessualità veniva ancora vista come un reato.
C’è gloria anche per Tom Branson (interpretato da Allen Leech) il cui temperamento irlandese anarchico-ribelle diventa una piacevole opportunità di racconto per Fellowes, cogliendo l’opportunità per metterlo accanto ai Regnanti d’Inghilterra, il contrario di tutto ciò a cui il buon Tom crede. E per Lady Edith, da sempre il personaggio femminile più rilevante per Fellowes – pronta ad affrontare le conseguenze delle trasformazioni del suo corpo e di un animo fortemente emancipato che da sempre l’ha contraddistinta – che si contrappone così alla più tradizionale Lady Mary.
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L’impressione è proprio che Fellowes, conoscendo bene le peculiarità dei propri personaggi – come fossero dei figli – non si sia voluto affidare a una narrazione corale a tutto tondo, lasciando piuttosto che i vari Branson, Carson, Murrow ecc, emergessero dallo sfondo della coralità, dando quelle tonalità socio-politico-culturali, che danno colore e pepe a una narrazione che – come detto – gioca tanto sulle relazioni tra i personaggi che non sugli eventi in sé.
Se però i sopracitati Branson, Carson, Edith e Murrow emergono dallo sfondo, Fellowes è attento anche a dare il giusto minutaggio a tutti i membri della casa. Tra love story, chiusure di archi narrativi, e spassosi momenti comici tra Molesley (interpretato da Kevin Doyle) e l’arguzia di Lady Violet, a cui Fellowes affida i momenti più brillanti della narrazione, gestiti in modo sorprendente da una sempreverde Maggie Smith.
Downton Abbey: il ritorno a Downton non è mai stato così dolce
Tra ricostruzioni d’epoca, parate, rivelazioni di ogni genere, e meticolosi procedimenti volti a rendere il soggiorno dei Regnanti il più perfetto possibile, Downton Abbey aggiunge un tassello in più nel racconto di Casa Crawley, forse non del tutto necessario vista la chiusura di per sé “perfetta” della sesta stagione con lo special natalizio, ma che lo diventa nel farci tornare ancora una volta nella tenuta dello Yorkshire.
Il lungometraggio diventa così molto più di un film di chiusura di un racconto televisivo portato al cinema come nel sopracitato caso di Deadwood, ma l’espediente per dare ai fan una gioia in più che auspicavano sin dal 2016, e per provare a far scoprire a chi ancora non lo è, la magia e la forza di un racconto come quello di Downton Abbey, un racconto valido per tutte le stagioni.