Editoriale | Wildlife e gli occhi del figlio: macchina da presa assoluta nel film di Paul Dano
Joe (Ed Oxenbould) è il veicolo principale con cui leggere - e vedere - Wildlife. Un figlio che scruta la vita della sua famiglia e le dà così forma.
Sono gli occhi del figlio il veicolo principale con cui guardare Wildlife. L’identificazione secondaria che avviene attraverso il personaggio prima ancora che con la macchina da presa, e che nel primo film da regista dell’attore Paul Dano si rivela maniera con cui osservare il racconto e la vita dei personaggi che vanno a popolarlo. Sul romanzo Incendi dello scrittore Richard Ford, l’opera d’esordio dell’interprete americano va associandosi con insistenza allo sguardo del giovane Joe, un Ed Oxenbould che riecheggia, nell’aspetto bizzarro, i connotati distintivi del neofita regista statunitense.
È sempre in scena il personaggio di Joe, come se l’azione partisse prima di tutto dalla sua presenza, passando poi al suo sguardo, che è ciò che va infine a comporre tutti gli elementi che costituiscono la messinscena. È di una crisi che Wildlife tratta. Di un matrimonio all’apparenza felice, di un’irrequietezza umana, di un allontanamento, di un salvaguardarsi e, infine, di un’arresa inevitabile. Ed è, in tutto questo, sempre Joe lo spettatore principale, che permette agli altri protagonisti di muoversi e agire sotto i suoi occhi vigili che, sostituendosi al narratore, diventano strumento di racconto della storia.
Wildlife: il giovane Joe come osservatore e fautore della scena
È Joe che guarda con soddisfazione i cinguettii dei propri genitori, prima che il licenziamento e la perdita di obiettivi si abbattessero come un fuoco sulla loro famiglia. Che sbircia, anche quando lo sguardo è ostacolato, i litigi della madre e del proprio irragionevole padre. Il ragazzo è lo strumento di cui il film fa uso, rendendolo non solo parte integrante delle vicende, ma fautore del corso degli eventi. Al punto tale che, quasi, ci si inizia a chiedere cosa accadrebbe se i suoi occhi non si posassero sui punti centrali della narrazione. Forse non esisterebbero. Forse prendono forma proprio perché è Joe a donargliene una. A renderla significante. Ad attivare le sinapsi del dramma familiare.
Anche il suo continuo posizionarsi nello spazio non è mai lasciato al caso. È sulla soglia delle porte che il giovane sosta. Con l’anta accostata, ma sempre con uno spiraglio grande abbastanza da permettergli di cogliere l’evoluzione del rapporto dei suoi genitori, prima, e della sola madre, poi. Oppure il suo collocarsi frontalmente alla finestra, da sempre metafora di un’apertura verso la conoscenza del mondo, che per Joe si rivela il dover accettare la sporcizia che vorrebbe rimanere celata, ma che viene portata in superficie proprio tramite il suo sguardo.
Joe come strumento di Wildlife per poter vivere e far vivere
Non è un caso, infatti, il lavoro che il ragazzo intraprende nei pomeriggi dopo la scuola. È quello dell’assistente di un fotografo il mestiere che sceglie di perseguire per contribuire con le spese di casa, un ulteriore ingrandimento e inquadramento della vita che passa tutto dall’obiettivo di una macchina fotografica. Perché, oltre a rendere reale ciò che anche lo spettatore può vedere sullo schermo, è il suo tenerlo fisso nella mente che dà al personaggio di Joe una propria personalità, che andrà continuamente formandosi e rafforzandosi durante la pellicola. Nulla mantiene eternamente salda una visione o un ricordo come una fotografia e con il supporto di un altro occhio il ragazzo rende ancora più stabile il proprio ruolo nella famiglia e nelle dinamiche del film, che può condensarsi tutto, dunque, nello scatto finale del quadretto familiare dei protagonisti. Negli occhi lucidi, che rimarranno per sempre tali, dei genitori di Joe.
Wildlife vive di ciò che il personaggio di Joe – e lo stesso Paul Dano, sceneggiatore insieme a Zoe Kazan – decide che deve vivere. Un regime dello sguardo che incentra sul personaggio la responsabilità della costruzione della pellicola, non rendendo più i genitori promotori del destino dei propri figli, ma piuttosto facendo dei figli il dispositivo per raccontare di storie e sconfitte. Non giudicando i propri padri o le proprie madri, ma osservandoli mentre danno sostanza ai loro insuccessi. Gli occhi del figlio come mezzo privilegiato con cui creare, ma anche via preferenziale con cui ammirare Wildlife.