Edward: recensione del film filippino di Thop Nazareno
Qualche giorno nella vita grottesca di Edward, un ragazzo che vive in ospedale accudendo il padre e rinunciando di fatto alla propria adolescenza. Un ritratto disincantato di un Paese malato.
Pur non appartenendo in modo dichiarato alla medesima corrente e “onda” cinematografica, autori quali Brillante Mendoza, Lav Diaz, Isabel Sandoval ed Eduardo Roy Jr. sembrano inseguire la stessa urgenza narrativa, lo stesso bisogno di raccontare una macrostoria da consegnare poi al mondo (principalmente, dei festival). Edward del giovane Thop Nazareno – in concorso al Far East Film Festival 2020 – non sfugge a questa logica: l’intento primario è la denuncia, la rivelazione di un sistema corrotto e sbagliato.
Nazareno sceglie una via piuttosto interessante: siamo dalle parti del realismo (camera a mano, lunghi piano sequenza) che sovente si fa leggero e trasognato, ma che non risparmia le stilettate e il cinismo per rendere ancora più palese ed evidente il proprio assunto. Un film semplice e diretto, popolato da personaggi capaci di diventare subito familiari e “vicini”, nonostante la distanza geografica e la rappresentazione di un sistema ai limiti della distopia, talmente crudo da sembrare inverosimile.
Edward: vivere e morire a Manila
Le flebo sostenute da appendini per abiti, i parenti dei malati che dormono sotto ai letti e che ricordano agli infermieri le medicine da dare ai pazienti, l’attesa di un mese per i risultati medici, la presenza di un solo dottore in tutto il plesso sanitario per un solo giorno alla settimana: in questo scenario da incubo si muove l’adolescente Edward, che accudisce il padre malato. Si fatica, inizialmente, ad empatizzare con lui, vista la sua pressoché totale incoscienza e la noncuranza con cui scambia i reparti per giostre da luna park, scommettendo sulla vita e sulla morte dei degenti.
Come romanzo di formazione, Edward si dimostra piuttosto innovativo: la maturazione del ragazzo arriverà grazie a un’osservazione via via sempre più attenta del degrado e della disperazione che lo circonda, portandolo – e portandoci – a scoprire un’umanità che spesso diamo per scontata o che ci dimentichiamo di possedere. La spinta arriverà anche dal contatto con una ragazza ricoverata a causa di un pestaggio, con cui il personaggio principale instaurerà un rapporto di amicizia e intimità, in un contesto in cui gli spazi sovraffollati rendono impossibile la privacy.
La rivoluzione dal basso
Per quanto la delicatezza dell’approccio si scontri con una scrittura fortemente a tesi, il messaggio di Edward arriva forte e chiaro: si racconta di persone – e di una nazione – in difficoltà, incapaci di fare qualcosa per fuggire, che non hanno mai avuto l’opportunità di combattere contro gli apparati che li opprimono. Una situazione senza speranza, che scava con coraggio nelle carenze del sistema sanitario pubblico soffermandosi sulle tragedie e su una lunga serie di abusi che diventano inevitabili in una struttura sovraffollata e sottodimensionata. Questa avvilente deriva viene data per appurata, immutata e immutabile nel tempo.
Le cose non cambiano, non diventano migliori o più semplici per nessuno; restano dunque la capacità del singolo, la grazia e la resilienza di chi sa resistere alle onde della tragedia. È difficile crederci, ma sembra l’unica rivoluzione possibile: per riformare la società dal basso – sembra volerci dire Thop Nazareno – servono gli occhi ingenui e impreparati di chi con una frase o un gesto inatteso scardina il disastro etico a cui tutti siamo assuefatti e abituati. Edward è un sogno dentro un incubo (e viceversa), e questo lo rende uno delle proposte più interessanti – e importanti – del FEFF 2020.