Ehrengard: l’arte della seduzione – Recensione del film Netflix
Tratto dall'ultimo racconto scritto da Karen Blixen, il film Netflix nasce con il blasone e si rivela un piacevole divertissement.
In Ehrengard: l’arte della seduzione, ci troviamo in un regno fittizio del nord Europa, dove la granduchessa trama con il pittore mefistofelico Cazotte (Mikkel Boe Følsgaard) affinché il figlio impacciato seduca un’altrettanto inesperta principessa e assicuri alla dinastia un erede in grado di mettere al riparo il trono dalle mire usurpatorie dei rami cadetti. Riuscito nell’impresa, Cazotte vuole tentare un’altra seduzione, questa volta non per interposta persona.
La sua attenzione si rivolge a Ehrengard (Alice Esther Leisner, figlia della regista Susanne Bier), eterea nobildonna educata dal severo padre al rispetto più rigoroso dei precetti della condotta morale luterana, un’incarnazione dell’energia virginale e sommessamente ribelle della dea Diana e del suo mondo lunare (e lacustre) di incantamenti e sublimazioni di selvatiche insubordinazioni all'(altrui) predazione. Con la granduchessa, personaggio tra il faceto e il grottesco, Cazotte fa una scommessa: riuscirà a sedurre la giovane senza nemmeno sfiorarla, bensì utilizzando soltanto la manipolazione mentale.
Ehrengard: l’arte della seduzione – un film godibile e, per gli standard Netflix, persino raffinato. Con una tradizione letteraria e filosofica importante alle spalle.
Tratto dall’ultimo racconto scritto in vita dalla scrittrice danese Karen Blixen, pubblicato postumo nel 1863, Ehrengard: l’arte della seduzione, come la fonte letteraria da cui proviene, satirizza la speculazione del filosofo Søren Kierkegaard intorno allo stadio estetico della vita dell’uomo: il don Giovanni – il Johannes del Diario del seduttore kierkegaarderiano così come il Cazotte blixeniano – non gode della donna sedotta, ma della conquista, della consapevolezza di averla soggiogata con la supremazia della propria intelligenza, con la capacità di calcolarne le reazioni, di anticiparne rossori e fremiti di desiderio. Il seduttore gode del potere che riesce a esercitare, della pratica del controllo. Peccato, però, che spesso finisca per essere beffato e che, di fronte a un’intelligenza femminile sottovalutata, abbocchi all’esca del suo stesso gioco, sedotto a sua volta per effetto di un sottile intorcimento della sua stessa perversione.
Il film, diretto dal Premio Oscar Bille August – il suo Pelle alla conquista del mondo (1987) vinse sia la Palma d’oro a Cannes sia il riconoscimento per miglior film straniero agli Academy Awards del 1988 –, impreziosito non senza una debita leziosaggine da scenografie e costumi scelti dalla regina Margherita II di Danimarca, conquista per il suo passo leggero, per il suo gusto da operetta: lo scenario è sfavillante, il ritmo del racconto vivacemente cadenzato, ma la vicenda al suo centro – un’intersezione di intrecci: il plot dell’intrigo dinastico e quello delle macchinazioni di Cazotte – si dipana come una parodia la cui amarezza in contro-campo si stempera nella vaghezza di una riflessione più ampia che, anziché sostenere il racconto scenico, arranca ed evapora.
Conclusione e valutazione
Se il testo di Karen Blixen rappresenta infatti la più compiuta espressione della sua finezza di scrittrice gotica e metafisica, trascendente rispetto al piano della mera illustratività, il lungometraggio che ne deriva è ugualmente un divertissement, ma privo della proiettività filosofica e della stratificazione che invece appartiene al racconto letterario. Il piacere della visione coincide con una godibilità pura, che manca però di stimolare, come avrebbe potuto, l’intelletto dello spettatore, la sua capacità di pensare, a partire dal dato sensibile, l’inconsistenza della fanfaronata fallica che concepisce in senso isterico l’atto della conquista, il rito della caccia: il mito di Diana, così come la parabola di Ehrengard, dimostra che il femminile che si rifiuta di essere ‘cacciato’ può diventare abile in quella stessa caccia a cui si sottrae, superando in destrezza il cacciatore a cui vuole sfuggire.
La reversibilità delle posizioni, nel gioco d’amore, rende franosa e imprevedibile qualsiasi traiettoria di desiderio: il seduttore, però, non tende a nessun oggetto, vuole soltanto perpetuare la sua insoddisfazione per poter continuare a desiderare e così a sentirsi potente, immune alla condizione di preda in balìa di un padrone. Fintanto che, però, non incontra una donna a cavallo che sappia mostrargli l’inconsistenza della sua ricerca e la paradossale impotenza che la muove, l’ammasso d’aria, il filo di nuvola, dietro la maschera d’onnipotenza. Ehrengard: l’arte della seduzione è un film che avrebbe allora potuto e dovuto essere molto di più di quel che è, perché nel suo soggetto c’è molto di più di quanto filmicamente adattato: così (ben) confezionato, intrattiene, ma non sposta nulla un po’ più in là, concentrandosi sulla bella grafia dei suoi movimenti e non sulla mobilità dei caratteri usati, sulla loro ambiguità agitatrice, mobilizzatrice di drammi e disvelamenti. Per gli standard formali e drammaturgici di Netflix, si tratta comunque di un’opera più che dignitosa.