Einstein e la bomba: recensione del documentario Netflix
Il documentario, disponibile su Netflix, è scritto da Philip Ralph e diretto da Anthony Philipson.
“La cosa più bella che possiamo osservare è il mistero“, il mistero che si cela alla base delle più grandi rivoluzioni scientifiche, il mistero che si cela nel pensiero geniale di chi la scienza l’ha compresa meglio di chiunque altro, osservandone e limitandone le criticità; Einstein e la bomba è il nuovo documentario Netflix che racconta la mente più illustre del XX secolo, Albert Einstein, dettagliandone il ruolo in merito a delicate questioni, quali la sua discendenza ebraica e, soprattutto, il proprio coinvolgimento nello sviluppo degli armamenti atomici. La miccia accesa da Oppenheimer ha dato origine ad una reazione a catena e, dopo la pellicola di Nolan e il documentario ad essa direttamente connesso, To End All War: Oppenheimer & the Atomic Bomb, i bombardamenti non si sono placati, tanto da spingere il regista Anthony Philipson e lo sceneggiatore Philip Ralph a ritornare su uno degli aspetti solamente accennati dai precedenti: il ruolo dell’eminente scienziato tedesco. L’opera, prodotta dalla BBC e già disponibile su Netflix, non risponde peraltro ai dettami classici del cinema del reale ma si struttura più come un ibrido che va ad integrare una forte componente fintamente ricostruttiva.
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Einstein e la bomba: il prezzo di scoperte preziose
Da una parte l’Einstein da archivio, rievocato dalle immagini, dai video e dalle sue stesse parole, scritte e pronunciate, dall’altra l’Einstein interpretato, quello fittizio, ricostruito sulla base della fama e della percezione che il secolo scorso ha avuto di lui, e rivisitato sui tratti dell’attore Aidan McArdle (Ella Enchanted, Beautiful People). La figura del genio viene raccontata nel suo intimo rapporto con la guerra e rielaborata da un filo logico che trova la sua origine nell’esilio, in quella fuga dal proprio paese, dovuta alla promulgazione delle leggi raziali e alle sue origini ebraiche.
Lo scienziato si rifugia presso uno chalet di Norfolk, in Inghilterra, dove Barbara Goodhall (Helena Westerman), Margery Howard (Rachel Barry) e il comandante Locker Lampson (Andrew Havill), posti a sua protezione, oltre che accompagnarlo in un momento di obbligata e sofferta latitanza, gli danno anche la possibilità di impartire insegnamenti e di trasmettere alcune delle nozioni alla base del suo pensiero.
Le sensazionali scoperte di Albert Einstein fanno da sfondo, e con esse i viaggi, in Giappone e negli Stati Uniti, le sue teorie, l’evolversi della sua carriera a Princeton, mentre l’incedere della storia porta alla guerra e alla drammatica corsa agli armamenti di tutte le forze in gioco. La scoperta dell’atomo e delle sue proprietà, causa una serie di conseguenze che confluiscono nella progettazione dell’ordigno atomico, nella conseguente catastrofe di Hiroshima e Nagasaki, e quindi nella complicata valutazione morale di quanto il ruolo del fisico tedesco, considerato il dubbio instillatosi nella mente di lui e riferito a Roosevelt, sia stato effettivamente cruciale per la costruzione e l’esplosione della bomba.
Finzione a servizio della realtà
“Il mondo della scienza è ingenuo in confronto alla realtà. Eppure è la cosa più preziosa che abbiamo”.
Il documentario che tenta di raccontare l’inesplicabile relazione tra la scienza e la realtà, nella figura di Albert Einstein, nasconde in sé stesso il medesimo rapporto tra il vero e la finzione cinematografica a suo servizio; un qualcosa di sperimentale che vuole spiegare, che vuole porre dei punti fermi o dai quali far partire un ragionamento, dando al protagonista la possibilità di riprendere vita e di entrare in contatto con il pubblico, scendendo dal piedistallo iconografico che lo considera unicamente come la mente più brillante del secolo scorso.
Einstein e la bomba: valutazione e conclusione
“Se non siete diventati più giusti, o pacifici, o razionali, allora andate al diavolo”.
Philip Ralph ed Anthony Philpson riescono quindi a riproporre quella stessa instabilità e dubbiosità etica di cui si nutre Oppenheimer di Christopher Nolan, del quale il documentario si identifica come una sorta di spin-off, mantenendo comunque un’istintiva e consapevole riconoscenza rispetto alla monumentalità del personaggio e ponendo piuttosto l’attenzione su come sia stata la bestialità dei molti a non saper sfruttare gli strumenti servitigli dalla genialità dell’uno. Oltre ad interpretazioni calibrate, che rendono giustizia ai personaggi, il soggetto gode di una certa originalità, non tanto nel contenuto, declinato similarmente rispetto all’opera campione d’incassi, quanto più nella sua forma, la quale però risente di una ricercatezza dell’immagine poco approfondita, che va a perdere nell’attuazione del contrasto con le riprese d’archivio e crea un’enorme disparità visiva tra l’autentico e l’immaginato.
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