Empire of light: recensione del film di Sam Mendes
Empire Of Light di Sam Mendes è nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 2 marzo 2023.
Empire of light, il nono film di carriera di un grande regista quale è Sam Mendes, si apre attraverso una moltitudine di silenziose e nostalgiche dissolvenze accompagnate da un incredibile brano composto da Trent Reznor e Atticus Ross, su quelli che sono gli elementi caratteristici di un cinema degno di questo nome: dalla macchina dei popcorn, al bancone con le caramelle, i dolciumi, le bibite e le barrette di cioccolata, fino ai cilindri coi cordoni utilizzati per formare le code, e poi ancora il tappeto rosso, fino alle vere e proprie sale cinematografiche, dapprima immerse nel buio, e poi illuminate dalla luce e dal colore di un rosso e giallo sempre più acceso, vivido, caldo e inevitabilmente accogliente e intimo. Un cinema che letteralmente prende vita davanti ai nostri occhi, risvegliandosi dal riposo del buio e della polvere.
A partire da queste primissime immagini Mendes ci accompagna dolcemente verso la scoperta del cinema Empire di Margarete (che è di fatto un non luogo), la principale location del suo ultimo e indimenticabile film Empire Of Light, all’interno del quale lavora da tempo indefinito, Hilary Small (una gigantesca Olivia Colman), una donna enigmatica, senz’altro sofferente e colma di turbamenti emotivi, ma non per questo insensibile di fronte ad una questione necessaria di rispetto e tutela nei confronti di qualcosa che non è soltanto arte sopravvissuta al tempo, piuttosto fede.
Quella stessa fede che ciascun lavoratore del Cinema Empire è tenuto a riporre, osservare e ricordare nel prendersi cura del pubblico, delle sale, del bancone e di tutte quelle procedure all’apparenza inutili e fuori moda, che rendono però l’Empire una sorta di mecca intramontabile e immortale per tutti quei cinefili accaniti, così come per quei semplici fruitori e occasionali amatori della settimana arte che di tanto in tanto si recano lì tra proiezioni, maratone, retrospettive, eventi speciali e così via.
A partire da Hilary, giungendo poi a Neil, Brenda e Norman, diviene chiaro quanto a ciascun individuo corrisponda una mansione basilare, eppure fondamentale, affinché ogni proiezione venga portata a termine nel migliore dei modi, con uno sguardo da parte di ognuno di loro che non è mai soltanto di carattere professionale perciò annoiato e silenzioso, bensì familiare, dunque gioioso, divertito, condiviso, e vissuto tra momenti di amorevole complicità e amichevole scambio di opinioni e verità.
I lavoratori del cinema Empire si conoscono così a fondo da rispettare i reciproci angoli bui senza doverne mai far parola, allo stesso modo conoscono il loro pubblico, che si divide tra semplici fruitori, cinefili accaniti e individui tanto scontrosi quanto orrendamente macchiati moralmente dalle violenze del razzismo.
Quella del razzismo è infatti una presenza temuta e serpeggiante che resta per gran parte del film nel sottotesto e fuoricampo, perciò costantemente in agguato, silenziosa e celata, per poi esplodere in tutta la sua rabbia inespressa, feroce e cieca, trattandosi dell’Inghilterra degli anni ’80 dunque del Thatcherismo, della discriminazione razziale, degli Skinhead e dell’odio bianco.
Se sulla carta il semplice e intimistico racconto dell’Empire Cinema tra dinamiche sentimentali e drammi psicologici di media o alta intensità poteva apparire come una follia o quasi, oppure come un progetto documentaristico apparentemente noioso sulla storia di un cinema qualsiasi della provincia inglese e sulle vite dei suoi lavoratori, è proprio nella sua realizzazione filmica che la magia avviene, dimostrando quanto Sam Mendes avesse come volontà estremamente definita e sincera, per questo incredibilmente commovente, quella di guardare ai suoi maestri con una devozione, un rispetto ed una fede così radicali da sorprendere e affascinare anche il più deciso detrattore della filmografia Mendesiana.
Poiché Empire Of Light non è una semplice e autoriferita celebrazione (come accade per Spielberg guardando a The Fabelmans dove l’autoreferenzialità esplode), bensì la è nei confronti di tutti coloro che hanno reso un autore cinematografico Sam Mendes, a partire dai più volte citati nel corso del film, Hal Ashby, Peter Sellers, John Landis, Bob Fosse, Lubitsch e così via. Un’operazione narrativa tanto attraente e sincera, quanto complessa, che diviene presto un racconto su di un cinema e al tempo stesso sul cinema nella sua concezione più totale, partendo dalle origini e arrivando ad oggi.
Indovina chi viene a… lavorare all’Empire
Richiamando indirettamente (ma nemmeno troppo), il cult del 1967 di Stanley Kramer, Indovina chi viene a cena, nel quale una giovane Katharine Hepburn presenta ai genitori Matt e Joanna – interpretati rispettivamente da Spencer Tracy e Katharine Houghton – una coppia di liberali bianchi ingenuamente convinta d’aver sconfitto il razzismo, il giovane fidanzato di colore John (interpretato da un sempre leggendario Sidney Poitier) dando il via a ombre, sguardi e scomode verità da vero e proprio gioco al massacro, pur sempre filtrato dai linguaggi narrativi della commedia di serie A, Empire Of Light si ricollega pressoché allo stesso modo, alla tematica della discriminazione razziale ponendo come “intruso” tra i lavoratori dell’Empire Cinema proprio un giovane di colore, Stephen (Micheal Ward), che nel sostituire un bianco, diviene presto oggetto del desiderio femminile, così come vittima dell’odio razziale inevitabilmente presente nel contesto di provincialismo e mentalità limitata di Margarete.
In un atipico, affascinante ed emotivamente sensuale incontro tra istanze tipicamente rintracciabili tanto nel cinema di Bernardo Bertolucci (sono numerose le inquadrature che richiamano esplicitamente la sensibilità e lo sguardo di Ultimo tango a Parigi), quanto in quello di Ernst Lubitsch, Joseph Losey e Frank Capra, Empire Of Light si dipana tra più piani e stratificazioni narrative, inizialmente affiancate, per poi incrociarle, preferendole una dinamica unica e imprevedibile che se dapprima mostrava alternativamente vita personale e poi pubblica della turbata ma dolcemente amabile Hilary Small, decide infine di far coesistere entrambe le realtà in una narrazione singola che tra scoppi di rabbia incontrollata, fugaci e appassionati momenti di sessualità, destabilizzanti confessioni emotive e amare riflessioni sulla predominanza di un ruolo o genere rispetto ad un altro, riflette tanto sulla lotta tra i sessi, quanto su quella di classe, passando per le ombre della malattia mentale e il significato profondo della solitudine.
Laddove Stanley Kramer veicolava il discorso razziale verso la commedia più brillante e leggera, Sam Mendes si concentra invece su di un cinema puramente drammatico, introspettivo e intimistico, per questo capace di scavare in profondità su tematiche così molto poco osservate e raccontate nel cinema dell’oggi, e nient’affatto semplicistiche, non trattandosi di un’opera cinematografica definitivamente e totalmente consolatoria e gioiosa, anzi, di un racconto malinconico, nostalgico e amaro, che proprio per la sua sincerità non può edulcorare drammi e violenze, piuttosto sottolinearle, tra momenti di dolcezza e sconforto che abbattono e commuovono, senza cessare mai.
Cinema… is a state of mind
Riadattando e riflettendo su di una celebre citazione appartenente a Oltre il giardino (Being There), romanzo di Jerzy Kosiński e capolavoro cinematografico estremamente poco noto di Hal Ashby del 1979 interpretato da un grandioso, malinconico e disincantato Peter Sellers – ormai sulla via del tramonto, poiché destinato a svanire poco tempo dopo quel film – che torna in una sequenza incredibilmente commovente e indimenticabile di Empire Of Light: “Life is a state of mind”, diviene chiaro quanto Mendes abbia vissuto la sua esistenza e il suo cinema riponendo una fede inaspettata nei confronti di quella citazione e di quello spirito di vita, modellato però da una tanto semplice, quanto immediata trasformazione: Cinema is a state of mind.
Non è infatti casuale che i protagonisti di Empire Of Light lavorino all’interno di un cinema e che discutano tra loro ripetendo di tanto in tanto citazioni e battute di film programmati all’Empire, anzi, ogni scelta narrativa muove in direzione di una grande verità che vede Empire Of Light, non come una semplice opera cinematografica, bensì come una magistrale lezione tenuta da Sam Mendes e centrata su questo discorso: Empire Of Light racconta la vita attraverso il cinema, ed il cinema attraverso la vita.
I linguaggi stessi del film parlano chiaro e così i suoi protagonisti. Ecco dunque che se si tenta la ricerca dello svelamento non è complesso identificarlo nel cortocircuito che Mendes crea nell’ingresso fortemente simbolico del giovane Stephen nella cabina di proiezione blindata dell’Empire Cinema, nonché sancta sanctorum e in qualche modo nascondiglio materno perciò di massima protezione di Norman (un Toby Jones in grande forma e potente come non lo vedevamo da tempo), il proiezionista del cinema, all’interno del quale si frappongono fra loro ritagli di giornale e fotografie dentro e fuori il tempo narrativo e discorsivo di Empire Of Light raffiguranti: Robert De Niro, Martin Scorsese, Clint Eastwood, Alfred Hitchcock, Paul Newman, Ernst Lubitsch, Jack Nicholson, John Ford, Greta Garbo, Marilyn Monroe, Charlie Chaplin, Francis Ford Coppola, Al Pacino, Marlon Brando, James Stewart, Stanley Kubrick, Cary Grant, Buster Keaton, Federico Fellini, Dustin Hoffman, Daniel Day Lewis, Ridley Scott, Sigourney Weaver e così via.
Empire Of Light si rivela dunque un film incredibilmente riflessivo, emotivo, sincero sentimentale e devoto rispetto al significato che il cinema assume nell’esistenza e quotidianità di ciascun individuo – a partire dallo stesso Sam Mendes – sorretto da un cast di prim’ordine che vede tra gli altri Colin Firth, Monica Dolan, Tom Brooke e Toby Jones, divorati senza dubbio alcuno dalla magistrale e commovente interpretazione di un’Olivia Colman auto distruttiva e dolorosa, seppur di una tenerezza e dolcezza lancinanti.
Se le motivazioni precedentemente elencate non risultassero sufficienti, molti altri motivi renderebbero la visione di Empire Of Light necessaria, a partire dalla meravigliosa colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross, così come la fotografia chiaramente ineccepibile e maestosa di Roger Deakins che torna per la quinta volta a collaborare con Mendes dopo le esperienze di Jarhead (2005), Revolutionary Road (2008), Skyfall (2012) e 1917 (2019), anche se un elemento su tutti, o meglio, una riflessione, si rivela capace di rendere Empire Of Light un prodotto unico rispetto a qualsiasi lungometraggio precedente e per questo di fondamentale considerazione da parte del pubblico, ossia il dialogo profondamente intimo e veritiero che viene a crearsi tra dinamiche narrative e spettatori amanti del cinema che ritrovandosi totalmente nella dimensione della solitudine, del dolore e della malinconia elaborata da Hilary, non possono far altro che rifugiarsi nel – e al – cinema per continuare a vivere, o sopravvivere.
Un glorioso inno alla magia della sala cinematografica come luogo essenziale, unico, ormai atipico, raro e apparentemente sulla via del tramonto.
Presentato il 3 settembre 2022 al Telluride Film Festival, al Toronto International Film Festival e nel dicembre dello stesso anno alla 40° edizione del Torino Film Festival, Empire Of Light, il nono lungometraggio da regista di Sam Mendes è finalmente in uscita nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 2 marzo 2023, distribuzione a cura di Walt Disney Studios Motion Pictures.