LFF16: Un’estate in Provenza – recensione del film con Jean Reno
Un’estate in Provenza è un film del 2014 per la regia di Rose Bosch, che dopo l’anteprima italiana al Lucca Film Festival, approda nelle sale il 13 aprile. Il cast della pellicola bucolica vede tra gli attori Jean Reno (Paul), Anna Galiena (Iréne), Chloé Jouannet (Léa), Hugo Dessioux (Adrien) e Lukas Pélissier (Théo).
Il film è stato sottotitolato per non udenti e audiodescritto per non vedenti, questo grazie alla Nomad Film che ha deciso di diversificare la fruizione del proprio cinema.
Un’estate in Provenza (in originale Avis de mistral), è un dramma familiare sviluppato attraverso cerchi concentrici: il perno attorno al quale gravita la narrazione è l’inquietudine, un sentimento che si va ad instaurare tra i dogmi di due generazioni poste in antitesi e sconvolte da una convivenza forzata.
Jean Reno, unico personaggio autentico, sviscerato senza manierismi o forzature, è nonno di una famiglia opaca, l’appellativo in questione non l’ha mai attraversato poiché i suoi nipoti non li ha mai vissuti, a causa di antiche divergenze con la figlia. La Bosch però è abile nel non dimenticare di impreziosire la sua opera con una buona dose di umorismo, che slancia e crea maggior sinuosità ad una pellicola che avrebbe risentito della sola atonalità del dramma. La regista dipinge tinte forti e a volte così ampie da percepire quanto possano essere saturi alcuni vezzi o meglio vizi che si compiono scegliendo un’impostazione narrativa di questo tipo: Un’estate in Provenza si apre con la musica dei Simon & Garfunkel, The Sound of Silence, volendo far cogliere fin da subito la particolarità del piccolo Théo che è sordomuto, scelta che già presuppone un racconto quasi telegrafico, che con una canzone, un oggetto, o un vestito sceglie di determinarne la comunicazione.
La Provenza diventa il teatro di un’estate in cui tre ragazzi parigini si vedono costretti a passare del tempo senza poterlo evitare in nessun modo. Ed è da qui che la nonna Iréne, una Anna Galiena in formissima, applica la tattica dell’incudine e martello: considerando che i genitori dei tre ragazzi si apprestano al divorzio, che per Paul è ormai diventato lo sport nazionale, corre ai ripari con la volontà di far riscoprire il senso di una comunità, di un’unione che in qualche modo Lea, Adrien e Théo rischiano fortemente di perdere. E non è l’unica cosa che sfida il baratro: la pellicola è a tratti piacevolmente lenta, ma senza stancare lo spettatore in modo persistente, poiché la stessa regista colloca la temporalità in conflitto con la vita metropolitana: “oggi la gente si è resa conto che le grandi città rubano ciò che la provincia restituisce: il tempo”, sentenzia la Bosch. Ma è il maestrale, il vento da cui prende il titolo il film, che aiuta a ricomporre e a rinvigorire le sorti di una famiglia che con invoca una solidità tra le mura rupestri e i vigneti provenzali.
Un’estate in Provenza: un film che non sa alzare la voce e osare nelle sue malinconie
Questi tre ragazzi sono improvvisamente catapultati in una realtà fin troppo eccessiva per i loro standard: una generazione che si guarda alla specchio mostrando come si sia potuto passare dai figli dei fiori ai figli dei social. Lea, vegana e no global alla ricerca della rete perduta, Adrien sconfitto e scontroso cerca di sfuggire a quella permanenza con colpi secchi inferti ad una famiglia in sfacelo e Theo che è in qualche modo il motore della storia, silente e decisivo. Certo è che il gusto del già visto proprio non viene allontanato, soprattutto in alcune scene quali le feste locali, o le bellezze quanto mai non locali che rapiscono i due adolescenti, o il ritrovo dei biker/hippy che fumano canne e suonano gli Alphaville, il momento nostalgia doveva arrivare, ma era giusto svelarlo pacatamente, senza fretta, altrimenti che commedia sarebbe stata? Purtroppo alcuni toni giustamente reverenziali verso quel mondo, quel periodo sono inseriti in modo troppo fugace, non viene data giustizia al passato di quell’uomo di cui vediamo le cadute e la leggera ripresa senza apprezzarne le vere sfaccettature. Paul è un personaggio interessante ma di cui ce ne dimenticheremo presto. Come anche della stessa pellicola che non ha saputo alzare la voce, osare nelle sue malinconie e imporsi in un genere che ha un peso specifico, prettamente drammatico, senza ostinarsi troppo sulla leggerezza che abita la commedia.
Jean Reno non è solo un alcolista in perenne redenzione, o un nonno mai realizzato, o un ovicoltore mai apprezzato, è il segno di un’epoca che non sa dimenticare il suo passaggio e che intona le canzoni di Bob Dylan in modo sommesso, con la celata vergogna di chi non può onorare il suo passato, perché fervido di rimorsi e antichi dispiaceri.
Ci sono due tipi di silenzi che vagano per Un’estate in Provenza: quello autoimposto da Paul, che dopo anni di nomadismi e peregrinazioni ha scelto di rifugiarsi nella sua oasi di campagna, e quello innato di Théo che riesce a scomporre le sue parole in modo da riuscire a toccare vette altissime e a confrontarsi col carattere burbero del nonno, un modo di portare avanti un discorso con altri mezzi, con altre voci.