Taormina Film Fest 2020 – Eva: recensione del documentario
Eva è il documentario su un'ex torera che, per festeggiare i suoi vent'anni dall'inizio della carriera, torna per un ultimo scontro nell'arena.
Vivere e morire nell’arena. È quello che il torero affronta ogni volta, mettendo il suo vestito migliore. Quello della tradizione, l’ultima stoffa che potrebbe indossare prima di entrare in quell’ovale insabbiato dove la sua esistenza andrà a scontrarsi con quella di un avversario, un nemico. Anche lui lì a lottare per la propria vita, generandola allo stesso modo proprio nello scontro con l’altro. È della suggestiva arte della corrida che Eva Bianchini si innamora ancora adolescente, estranea a un uso e costume che farà suo fin dal compimento dei diciotto anni, trasferendosi in Spagna e cominciando ad avvicinarsi all’universo dei torti e il loro tramutare una pratica vista da molti come atroce e crudele in una sfida piena non solo di tensione emotiva tra il torero e il toro, ma un modo di vivere di quella sinergia che si accende proprio nel momento dello scontro.
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Eva è il documentario che ripercorre la carriera della donna filtrato dall’occhio della camera da presa di Elettra Pierantoni, al suo debutto cinematografico dopo il cortometraggio del 2010 Semiliberi e nella selezione del Taormina Film Festival. La finestra sull’esistenza di Eva, che la regista conduce fino al desiderio della donna di festeggiare i suoi vent’anni dal debutto nell’arena tornando, ancora per una volta, a fronteggiare il suo avversario, viaggia nel tempo tra gli inizi di un percorso di comprensione e crescita che ha condotto la protagonista a realizzare, finalmente, il suo sogno, scendendo a patti con i rimpianti di un successo che, in fondo, non è mai veramente arrivato e che è stato il trascorrere degli anni a veder, poi, abbandonato.
Eva – L’arte scultorea dello scontro
Analizzando attraverso una visione prettamente personale ciò che rappresenta il mondo dei toreri e delle loro azioni così composte e precise, Eva è l’elaborazione di una passione e la completa devozione che la sua protagonista le ha riservato. L’esplicazione a parole di un sentimento che è l’arte stessa praticata dalla Bianchini a suggerire a chi lo vive da parte attiva e a chi ne fruisce con lo spettacolo, diventando elaborazione corporea e muscolare di fisicità umane e animalesche che si fanno statue, sculture dell’arte antica che rinascono per un istante nell’incontro tra uomo e animale e trasudano, così, della poeticità che da sempre accompagna questa antica usanza.
Un’estetica della performance della corrida che si contrappone all’esplorazione interiore che apre lo spettatore alla scoperta di questo peculiare universo, conoscendo anche meglio colei che la Pierantoni rende fulcro principale del documentario e lasciandone trasparire la grinta e la volontà di ritornare a quella che è stata e che sarà sempre la sua vita.
Quel fuoco che si spegne lentamente
Nonostante, dunque, un interesse sincero che Eva desta al suo principio, è al proseguire dell’opera che il tessuto narrativo del doc non concede ulteriori spunti se non la preparazione alla celebrazione dei vent’anni dall’ex torera, non avendo più elementi coinvolgenti con cui portare avanti la propria storia, arrestandosi progressivamente fino al raggiungimento della conclusione della pellicola. Un trattamento dei materiali che mostra il suo opposto nella seconda parte del documentario, rallentando rispetto alla disamina artistico-rituale che caratterizzava il suo principio, come non avendo altro da aggiungere su una vita di cui, invece, si percepisce molto oltre la superficie.
Se secondo i versi di un poeta sivigliano caro alla Bianchini “per un sogno si può dare la vita”, quello che sembra mancare ad Eva è quel desiderio che, al contrario, ben si cattura dalla natura della donna. Un fuoco che dovrebbe bollire e montare nell’animo come accade in quello della protagonista e che viene invece fuori in una minima percentuale rispetto a ciò che si riesce ad avvertire dalle sue parole e dalle sue posizioni plastiche lì, al centro dell’arena. Un’ultima corsa che, però, non ha il sapore dell’epicità. Quella che meriterebbe questa ardente arte.