Familia: recensione del film da Venezia 81

Il film di Francesco Costabile, con Francesco Gheghi, Barbara Ronchi e Francesco Di Leva, presentato nella sezione orizzonti dell'81ª edizione del Festival di Venezia

Ancora una volta la famiglia, ancora una volta la tossicità, il violento che disgrega e che continuamente ritorna; la selezione di un festival presenta spesso interconnessioni che, a volte anche involontariamente, legano tante delle pellicole in concorso e non, travalicando il genere oltre che le diverse sezioni; Familia è il secondo lungometraggio diretto dal regista Francesco Costabile (classe 1980) che, a 2 anni di distanza da Una femmina – presentato nella sezione ufficiale di Panorama al Festival di Berlino 2022 – propone un altro dramma familiare che attinge dal reale e trae dal romanzo Non sarà sempre così di Luigi Celeste. Presentato nella sezione orizzonti dell’81ª edizione del Festival di Venezia, il film diretto da Costabile – e da lui scritto assieme a Vittorio Moroni e Adriano Chiarelli – vede la produzione di Tramp Limited (Attilio De Razza, Nicola Picone) in associazione con Medusa Film, Indigo Film e O’Groove e vanta come protagonisti Francesco Gheghi, Francesco Di Leva e Barbara Ronchi, corposa presenza del festival in corsa anche con il cortometraggio di Marco Bellocchio, Se posso permettermi – Capitolo II, e con l’opera di Valerio Mastandrea, Nonostante.

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Familia: l’avvelenamento del nucleo

Francesco Costabile cinematographe.it

Sordo ed offuscato, in incipit così come in conclusione, Familia non attende che qualche fotogramma per farci entrare nella storia, per addentrarsi nel racconto. Il piccolo Alessandro (in età infantile interpretato da Stefano Valentini) cerca di proteggere il fratello minore Gigi (Francesco De Lucia) dalle distanti e ovattate grida dei genitori Licia (Barbara Ronchi) e Franco (Francesco Di Leva), per poi lasciare che il focus si ricollochi sul restringimento del nucleo familiare voluto dalla madre, inevitabile conseguenza della sparizione di lui. Franco è però quel morbo che non vuol saperne di essere completamente estirpato e, con i figli ancora piccoli, cerca di riconquistarne l’affetto, spingendo Licia a chiedere l’intervento delle autorità.

Le conseguenze sono devastanti e anche la stessa madre, vittima colpevole solamente delle sue paure, si vede allontanati i figli per diversi anni, fino al salto temporale che muove ancora una volta in avanti, sino all’adolescenza dei due. È qui che Gigi diviene definitivamente protagonista del racconto e che, dopo aver aver scoperto l’amore nella paziente e sincera affezione di Giulia (Tecla Insolia) e aver cercato una propria identificazione identitaria entrando a far parte di un gruppo di estrema destra, viene riavvicinato in carcere dal padre, dopo circa 10 anni di allontanamento. Il tentativo del patriarca di rientrare nelle grazie dei propri cari – posto illusoriamente come una vera e propria rinascita della familia Celeste e come una rinascita di lui, mostratosi pentito e riconosciutosi responsabile – incontra ancora una volta la fragilità dei familiari, un fragilità che però, in questo caso, troverà una sua maturazione.

Sopraffazione della memoria

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Quelli di Familia sono giochi di potere che operano sulla memoria, sulla sopraffazione che vorrebbe eliminare un passato invece scomodamente presente. Ricordi nefasti portano ad un oggi che altro non è che la coerente risultante di ciò che è stato e che vede il protagonista attratto da quello stesso clima intimidatorio e dominante, ritrovato nel gruppo di estremisti a cui si unisce. Il rapporto con Giulia raggiunge alcuni punti critici in cui pare affacciarsi il violento ed oppressivo fantasma del padre, in un incerto oscillare che non dà mai tregua al ragazzo, sempre pronto a sbagliare, a inciampare, a correggersi per poi di nuovo cadere. Perché Gigi è figlio dell’impeto ma al contempo è figlio della paura, di quell’incapacità di confrontarsi con il male, di affrontare il timore di esserne sopraffatto, quello stesso timore che ha ormai reso Licia schiava del suo essere vittima, incatenata da una rovinosa ciclicità, dominante soprattutto nei momenti in cui sembra poter essere arrestata, interrotta. La soluzione non può più essere l’accondiscendenza, non può più essere l’abbandono; il bambino che fugge, il bambino che tappa le orecchie privandosi dell’ascolto, porta con sé tutto quel che prova a cancellare.

Una delle prime immagini del film apre ad un parallelo su cui soffermarsi, ad una sorprendente analogia con un’altra delle pellicole proposte all’interno della sezione Orizzonti. Così come in Quiet Life di Alexandros Avranas infatti, i quattro membri della famiglia attorno a cui ruota tutto il racconto si schierano in posa, per un’istantanea che cattura, mette a fuoco, capace di ingannare se presa nella sua compiutezza. Ma se nel film del regista greco il male ed il violento restavano fuori, qui sono interni, se lì la famiglia combatteva ciò che dall’esterno tentava forzatamente di disgregarne l’assetto, qui combatte sé stessa per poter salvaguardare il buono, per riguardo verso quell’amore offuscato, intossicato come da un virus.

Familia: valutazione e conclusione

Familia Costabile cinematographe.it

Francesco Costabile ama raccontarci una crudeltà reale, esistita, esistente, passata e temibilmente attuale, e se con Una femmina aveva già dato prova di saperlo fare prestando attenzione alla tensione emotiva e all’oppressione atmosferica, qua ricalca questa sua cifra evidenziando ancor più quanto non vi sia invece una ricerca sospensiva, quanto egli non badi ad un’ascensione climatica atta a sconvolgere il racconto. La narrazione va presa per quello che la storia è, per la sua verità, per il suo rispettare i passaggi e catturarne la drammaticità di fondo. I tre autori traslano sullo schermo il vissuto della famiglia curandosi primariamente dell’attenzione ai momenti, alle sequenze di vita che hanno determinato il realizzarsi di ciò che è stato, curando i dialoghi, le scene di confronto, le dinamiche rapportuali così forti anche nelle parti minoritarie: fondamentale il rapporto tra i due fratelli, diversi uniti dall’avversità, fondamentale il confronto di Gigi con il leader del gruppo a cui si unisce, fondamentale quel rapporto con Giulia, specchio difforme di un trauma passato che lo aiuterà a vedere tutto con più chiarezza. C’è da vedere (fotografia di Giuseppe Maio), c’è da ascoltare (Valerio Vigliar) e quel sordo offuscato che apre e che chiude, nel mezzo racconta tutto con estrema lucidità, con rispetto e nuda attenzione. La coronazione definitiva arriva dalle interpretazioni, che fanno vivere l’ottima scrittura dei personaggi di una calamitica intensità: Francesco Di Leva, Barbara Ronchi, ma soprattutto Francesco Gheghi (Mio fratello rincorre i dinosauri, Piove), che si appropria della forza empatica necessaria per trasmettere tutte le controversie, tutta la tossicità, tutto il malessere.

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Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.7