Ferro 3 – La casa vuota: recensione
Ferro 3 – La casa vuota è un film di Kim Ki-duk del 2004, vincitore del premio speciale per la regia alla Mostra del cinema di Venezia. Ferro 3 pone lo sguardo su Tae-suk, un giovane di cui si apprende molto poco durante tutta la durata della pellicola, che irrompe e abita case disabitate temporaneamente, curandole come se fossero sue.
Durante il suo nomadismo entra in una casa in cui pensava non ci fosse nessuno e si imbatte in una donna, Sun-hwa, piena di lividi e che non emette mai una parola (caratteristica fondante anche del carattere di Tae-suk) che vive in uno stato di prigionia, succube del marito che la malmena. Proprio il marito lo sorprende nel suo giardino, ma prima di poter fare qualsiasi cosa viene colpito da Tae-suk con la propria mazza da golf in totale disuso, la ferro 3: in quel preciso istante Sun-hwa scappa con lui senza pensarci due volte. I due cominciano ad avvicinarsi l’un l’altro, attraverso questo rituale diverso in ogni casa, abitando case degli altri e vivendo in pace nella loro dimensione. Il dramma accade nel momento in cui irrompono in una casa e trovano un uomo morto. Tae-suk da buon padrone abusivo lo lava e lo seppellisce con grande amore, come se fosse suo padre. Ma all’arrivo del vero figlio che trova i due all’interno della casa del padre vengono arrestati e accusati di omicidio. Così la polizia, convinta che Sun-hwa sia stata rapita da Tae-suk, la rilascia e la consegna nelle mani del marito mentre lui continua la sua prigionia, subendo le violenze da parte del tenente che non riesce a comprendere i suoi gesti, le sue effrazioni, nonostante sia consapevole della sua innocenza. I due amanti si potranno riunire ma non nel modo che ci si aspetti, vivendo una propria vita al di fuori dell’ordinario, erranti tra la realtà e il sogno.
Ferro 3 è un film introspettivo, in cui Kim Ki Duk domina con lucidità il mezzo cinematografico attuando un modus anarchico, senza orpelli di genere, rifiutando tradizionalismi, perpetuando una propria coerenza narrativa. Questa pellicola in particolare è figlia di budget contenuti e vive fuori dalle industrie, porta avanti mondi, anzi, universi interiori che esprimono con cura i dissidi e la viltà dello stare al mondo e il più ancestrale desiderio di una propria salvezza.
Ferro 3: un’apologia onirica che finisce per avere la meglio sulla realtà
Ferro 3 è pervasa da una bellezza immanente e simbolica, in cui gli emarginati e i cadaveri che pervadono il film vivono di una violazione, quasi di uno stupro. Nonostante ciò è quasi una favola per bambini, un’opera astratta che suggerisce dialoghi e raduna il suo svolgimento nel concreto. Ferro 3 è un’isola in cui prosegue il discorso sul legame tra la favola e il racconto morale, un’apologia onirica che finisce per avere la meglio sulla realtà, in cui convogliare sentimenti violenti e personaggi ai margini dell’esistenza.
Tae-suk entra nelle case perchè sono vuote ma non disabitate, il fulcro è riempire di un proprio quotidiano una dimora che viene temporaneamente abbandonata, lui irrompe negli appartamenti in modo gentile e servile: fin da subito l’occhio cinico dello spettatore presume che il suo entrare di soppiatto in case vuote abbia come scopo rovistare e sottrarre cose di valore ma lui fa tutt’altro, non ci si aspetta in nessun modo che sia così disinvolto tanto da sentirsi come a casa sua: aggiusta orologi, stereo, ripara una bilancia, che non verrà utilizzata per controllare il peso fisico, ma la leggerezza.
Se è vero che siamo case vuote in attesa di essere abitate o sfrattate dai nostri falsi miti, Kim Ki-duk impone il suo intento di come si possa cercare una soluzione ad una tale mancanza, una soluzione per l’astratto nel concreto. Tae-suk l’unica cosa che riesce a sottrarre è la vita stessa, sottrae vite altrui attraverso il corpo esanime di una casa vuota rinnovandola, ridando colore agli spazi altrui, se ne fa carico giovando e donando nuova luce e il suo amore, le sue cure non abbandonano mai le case, come se dopo il suo passaggio fossero realmente infestate della sua anima.
Ferro 3 è il nome di una mazza da golf, ma lasciamo ai golfisti le considerazioni in merito, ciò che è interessante è il modo anzi i vari modi con cui viene utilizzata. Niente in Ferro 3 è utilizzato o mostrato per come nasce. Una casa non è solo una dimora ma il centro della vita di un uomo. L’amore non solo è sessualità, asservimento o parole fluttuanti ma ciò che non è comunicabile con il linguaggio, che non è traducibile con parole, che non sia il suo paradigma coniugato in prima persona, ossia il ti amo. L’unica frase espressa da Sun-hwa.
Ferro 3 non è solo una mazza da golf quindi uno strumento per sollazzo, qui diventa un’arma, una fuga, è micidiale, vendicativa, diventa la sottrazione del quotidiano, dell’ordinario sacrificato sull’altare della spiritualità.
Eppure non ci si sente desiderosi di parole assistendo ai loro teatri interiori, o con vuoto di senso morale poiché non esplicitato nei discorsi, il raggio d’azione è opposto alla parola, Kim Ki Duk in Ferro 3 attua il voto del silenzio come gesto di libertà, di purezza, è un discorso portato avanti con il volto, i gesti, gli sguardi, anche i piedi, la postura, è tutto linguaggio.
Lei durante la prigionia di Tae Suk torna nelle case in cui è stata con lui perchè desiderosa di tornare a quella realtà, a quella felicità, ad abitare e a sentirsi abitata da una gioia sempre nuova, impalpabile, senza lividi, cicatrici da portare. Torna a quello che era con lui, assieme a lui, pur non avendo nulla per poterlo far tornare e pur non essendo stati null’altro che spiriti evanescenti in affitto temporaneo.
Tae suk è senza radici, che non vive di una sedentarietà, si sposta con la sua moto sempre errante tra due mondi: quello in cui è un estraneo nel corpo di un altro e quello in cui apprende e conosce il corpo più del suo stesso padrone. Tratteggiando la sua orma con leggerezza, determina l’andamento di ciò che tocca riposizionando cose abbandonate e mai curate.
C’è un confine sottilissimo tra apprendere quanto siamo pesanti e quanto siamo leggeri. I due amanti da entità divise, individuali, hanno un peso specifico, invece insieme creano una nuova entità, leggera, senza massa, unita e libera, senza alcun peso. Come se due innamorati d’un tratto perdano il proprio corpo, trascendano ad un livello più alto, ectoplasmatico. Lui è una cura, la bilancia è il mezzo per misurare la realtà e insieme sono sogni in divenire, sono amanti, e gli amanti non hanno un peso.
Il fantasma è uno spirito che sopravvive dopo la morte, ma l’unica morte all’interno di Ferro 3 è a livello sentitivo. Tae-suk è un essere che sa come scomparire, impara a farlo dopo essere stato imprigionato, non emette suoni e insegna con i suoi silenzi e i suoi gesti ad esplicitare l’amore che c’è in lei, che sceglie di non parlare per protesta. Anche la cinepresa comincia a non vederlo, come se l’occhio umano sia perfettamente speculare all’occhio filmico e lo specchio d’ombra che si trova alle sue spalle, che non permette di vedere per quei 180 gradi di buio, è il confine dell’invisibilità in cui trova una sua dimensione, reale o irreale che importa. Che accada nella realtà o nella mente o nei sogni è davvero così determinate? A suo modo accade.
Lei sa come trovare il suo amato, lei è l’unica che conosce i suoi movimenti, le sue angolazioni, i suoi spazi, nonostante Tae-suk continui a nascondersi nei 180 gradi di cecità, lui diventa invisibile a tutti tranne a chi sa dove si nasconde, a tutti tranne che per lei che sa dove si cela. Sembra che lui abiti quello spazio invisibile al quale non possono accedere né il cinema né l’uomo.
Due estranei non si sentiranno mai totalmente a proprio agio o adatti al luogo che andranno ad abitare in clandestinità, vivranno una costante ansia, un’angoscia che li vedrà succubi della fuga e di una caccia al vuoto di un casale semi abbandonato.
La cura di una casa è un rito ed è il riflesso dell’amore per se stessi. Tae-suk si intrufola in una casa apparentemente vuota, ed è li che nasce il dilemma tra i due amanti. Lei vive prigioniera in una casa che sembra disabitata. L’ingresso e la protezione di Tae-suk verso di lei la faranno riappropriare dei suoi gesti, dei suoi spazi e dei suoi sentimenti rinchiusi in uno scrigno di dolore, di rabbia.
Tae-suk fa degli autoscatti, ma non per ricordare semplicemente i luoghi in cui è stato ma per immortalare le nostalgie, i ricordi che per quel poco tempo di permanenza sono diventati suoi ricordi, sue nostalgie, sue abitudini, sue realtà.
L’anima di un uomo è una casa, l’amore è la violazione di quella casa, è la riappropriazione di certi spazi, di certi silenzi, di alcune dimenticanze fatte abitudini, dissimili da ogni bellezza, adombrate dagli oggetti simboli di arcaici ricordi, sofferenza, pezzi di vita infranti; il miracolo è saperli riadattare, saperli ricomporre, dargli vita nuova, così che sappiano dire ancora qualcosa, così che sappiano ancora suonare una melodia eterna.