FFF 2022 – Battlecry: recensione del film di Yanakaya
Una nuova droga circola nei quartieri, e per fermarla Haya deve allearsi con Soji.
Battlecry è un film del 2021 diretto da Yanakaia e presentato al Future Film Fest 2022.
Il Giappone è nelle mani di una nuova droga: la Golden Monkey. Questa misteriosa sostanza non solo fornisce a chi la assume un’energia illimitata, ma trasforma anche le sue vittime in mostri ombra, perfetti per combattere le guerre. Haya spera di porre fine a questa crisi, aiutato in da Soji, un soldato in congedo con un passato travagliato.
Battlecry: un noir orientale tra passato e futuro
Battlecry è un pastiche che costruisce un ponte tra passato e futuro all’interno dell’animazione nipponica.
E se il sottotitolo del Future Film Festival di quest’anno è Retrofuturo, prendendolo alla lettera Battlecry è l’esempio più lampante del significato, pur non essendone assolutamente l’opera migliore: perchè immagina un futuro che pesca a piene mani dal passato cercando nuove strade per il domani.
La storia è un classico noir declinato secondo le coordinate orientale: e se da una parte rinuncia alle iperboli di tanto cinema 3D, dall’altra ricostruisce un immaginario fecondato da anni e anni di sci-fi contaminata dal cyberpunk, senza dimenticare la lezione dell’onnipresente Blade Runner (con gli skyline fluorescenti e videoproiettati immaginati da sir Ridley Scott).
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Il capolavoro di Ridley Scott (di cui è stato fatto un sequel qualche anno fa, ad opere del bravo Denis Villeneuve, e a cui Amazon dedicherà a brevissimo una serie prequel) è da sempre, nel bene e nel male, un punto di riferimento quasi obbligatorio per la sci.fi moderna. Battlecry, come detto, non fa eccezione: sono ben presenti anche qui le raffigurazioni di città che si rifanno -come anche Blade Runner– allo skyline ideato da Fritz Lang nel lontano Metropolis del 1927: grattacieli sorvolati da navicelle, strutture a gradoni di ispirazione futurista, tutto immerso in una città dai vicoli fatiscenti che sormontano strade sporche e gremite di gente, illuminate da un’atmosfera perennemente luminosa che fa da contrasto ad un’umanità ingrigita in una realtà di sovrappopolazione invivibile.
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Tutti topoi che per osmosi sono passati alla sci-fi made in Japan e che sembrano irrinunciabili per racconti che sondano il nostro futuro: peccato che tutto questo, in Battlecry, non riesca ad andare oltre la copia carbone stanca, perdipiù con personaggi scarsamente caratterizzati e intrecci per nulla originali.
La declinazione cinematografica della distopia sociale non può, e non dovrebbe più, passare semplicemente da un futuro più o meno prossimo ancorato ad aspetti esperibili nel presente, utilizzando scenari già visti e inquietudini connesse con il presente.
Per questo, Battlecry è in pieno filone “retrofuturo” (come recita il sottotitolo del Future Film festival 2022, peraltro ben fornito in un concorso affollato da opere il cui valore varia dall’ottimo al bellissimo, come Inu-Oh o Les Secrets Des Mon Pere): il mezzo dell’animazione, oggi, è chiaramente non più uno strumento espressivo limitato al linguaggio per bambini, ma probabilmente uno dei più adatti per studiare il nostro presente per intuire il futuro. Oltretutto, da non sottovalutare che oggi la CGI (Computer Generated Imagery), che trent’anni fa era un’innovazione assoluta, oggi è la prassi, e diventa una piccola rivoluzione tornare all’animazione tradizionale, tra disegni animati e 2D o ancora stop-motion -come ha ben sottolineato Giulietta Fara, direttrice artistica del Festival-, ed è quindi pressoché perentorio non accontentarsi più di un prodotto nella media.
Va bene conseguentemente la rinuncia all’inutile enfatizzazione della CG: ma a tratti, Battlecry sembra davvero un videogame anni ’90 senza però avere nessun tipo o intenzione di carica nostalgica.
Il risultato è un film che si lascia scorrere per tutti i 90 minuti della sua durata, ma una volta accese le luci in sala non lascia altro che uno stantio retrogusto di deja-vu.