Fievel sbarca in America: recensione del classico d’animazione di Don Bluth
Il classico del cinema di animazione diretto da Don Bluth e prodotto da Steven Spielberg ha ancora molto da dire ai giovani spettatori
Tra i film classici di Natale, che il palinsesto propone ogni anno come un appuntamento rassicurante, c’è anche Fievel sbarca in America. Diretto da Don Bluth e prodotto da Steven Spielberg, il film è uscito negli Stati Uniti nel 1986 e in Italia nel 1987, diventando nel giro di pochi anni un franchise di ben quattro film e una serie TV.
La sua età Fievel la dimostra tutta – specialmente nel confronto con le opere di animazioni degli ultimi anni -, eppure non perde quell’aura di fascino vintage che caratterizza l’animazione di Don Bluth.
Fievel sbarca in America: Don Bluth e il cinema d’animazione extra Disney
Se oggi è normale vedere diverse produzioni e diversi studios cimentarsi nell’impresa di realizzare dei lungometraggi a cartoni animati, se – inoltre – è sempre più frequente che registi di cinema live action si dedichino a qualche progetto in animazione, negli anni Ottanta il monopolio della Walt Disney Co. era un dato di fatto. Certo, va specificato che si trattava di un monopolio dominante sopratutto nel mercato occidentale, e che quello orientale era già ampiamente indipendente e produttore di altrettanti capolavori.
Don Bluth è un animatore e regista texano, che ha mosso i suoi primi passi (e anche qualcosa in più) nella Walt Disney Co. Ha collaborato, tra gli altri, alle animazioni di Robin Hood del 1973 e di Red e Toby Nemiciamici del 1981. Proprio con quest’ultimo cartone animato, Bluth chiude i rapporti con la Disney, accusandola di essere diventata troppo castrante per la creatività degli artisti dopo la morte del suo fondatore. Dopo due cortometraggi (L’asinello e Banjo, gattino ribelle), Bluth dirige Brisby e il segreto di NIMH (1982) che in un primo momento non ha avuto un gran successo, salvo poi diventare un piccolo cult grazie alla diffusione in home video.
Lo stile di Bluth esplode decisamente in Fievel, a cui seguirono Fievel conquista il west (1991), Fievel – Il tesoro dell’isola di Manhattan (1998) Fievel – Il mistero del mostro della notte (1999) e la serie Fievel’s American Tails (1992). In tutti questi sequel, che decisamente hanno segnato il grande successo del franchise, Bluth non ha partecipato direttamente.
Bluth, Spielberg e Fievel
Indubbiamente l’incontro con Steven Spielberg ha cambiato la vita e – probabilmente – la direzione artistica di Bluth. Dopo aver visto Brisby e il segreto di NIMH, Spielberg restò così tanto affascinato dal potenziale di Bluth da voler finanziare come produttore il suo secondo lungometraggio. La scelta della storia ricadde su un tema molto caro al produttore, che infatti sarà ripreso anche in uno dei suoi lavori più acclamati, Schindler’s list. Con Fievel sbarca in America, però, la coppia Spielberg/Bluth dà un taglio del tutto diverso alla storia della comunità ebraica nel mondo, pur conservandone gli elementi-chiave. Maltrattata, costretta alla fuga e alla vita nella paura, questa popolazione – rappresentata dalla famiglia Toposkovich – ha in sé un’innata attitudine alla sopravvivenza, che si manifesta qui in un continuo susseguirsi di avventure. Alla fine, il piccolo Fievel, coraggioso e scaltro, riuscirà a cavarsela nonostante le minacce dei terribili gatti e a raggiungere l’obiettivo tanto sospirato: una nuova vita in America insieme alla sua famiglia.
Spielberg nel 1986 era all’apice del suo successo, aveva già girato due Indiana Jones e si stava preparando all’uscita del terzo. Aveva già ottenuto la sua consacrazione di produttore con Ritorno al futuro e Gremlins, si era imposto come autore con film più introspettivi come Il colore viola e aveva reinventato il genere con Lo squalo, E.T. l’extraterrestre e Incontri ravvicinati del terzo tipo. Quando iniziò il suo sodalizio con Bluth, però, non immaginava che quel piccolo e simpatico topolino ebreo gli avrebbe portato all’incasso-record (per un film d’animazione non-Disney) di 129 milioni.
I temi e la storia di Fievel sbarca in America
La storia di Fievel sbarca in America inizia nella lontana e fredda Russia, nell’alveo modesto ma ricco di amore di una famiglia di topi di origine ebraica composta da mama e papa Toposkovich, dalle figlie Tanya e Yasha e dal figlio Fievel. Il papà, con una spiccata immaginazione, racconta ai suoi figli di questa terra meravigliosa, dove tutti hanno la loro opportunità e – soprattutto – dove i topi non devono temere la minaccia dei gatti: l’America. La paura dei felini è tanto grande, nell’universo raccontato da Bluth, da non poter pronunciare neanche il loro nome ad alta voce. Si insinua così una tensione costante, data dalla costrizione di questi poveri topolini di vivere nel silenzio e di nascosto.
Il punto di svolta arriva quando il villaggio di Fievel è invaso dai cosacchi e la famiglia Toposkovich si decide finalmente ad emigrare. Come effettivamente succedeva alle vere famiglie povere europee, anche loro si ritrovano in una stiva di un transoceanico, in condizioni di indigenza, umidità e disagio.
Il racconto del sogno americano, di questa illusione necessaria a molti per andare avanti, e di un’Europa ormai sul lastrico sono temi molto diffusi nel cinema, spesso trattati da quelli che sono gli emigrati di seconda generazione. L’America della nuova Hollywood si stava raccontando per quella che era, ricca di contraddizioni e confusione, in parte anche dovuta alla sua origine multinazionale. Spielberg, insieme a Coppola, Scorsese, Zemeckis e tanti altri erano i portavoce della nuova generazione che negli anni Ottanta stava avendo uno dei suoi picchi più felici. Sarà stato anche per questo, probabilmente, che Fievel affronta direttamente il tema dell’emigrazione, rendendo il viaggio – sì – divertente e pieno di avventura, ma anche doloroso, come ogni distacco dalla madre patria.
Un’America multietnica e ricca di contraddizioni
I personaggi che Fievel incontra una volta separatosi dalla sua famiglia sono tutti – in qualche modo – rappresentazioni di quello spaccato sociale che caratterizzava il flusso migratorio della fine del XIX secolo. Già dal primo numero musicale, “There are no cats in America“, vediamo comparire due topi di nazionalità riconoscibili: il topo italiano e il topo irlandese, entrambi protagonisti della grande migrazione di massa di quei decenni. Difatti, successivamente, si ritroveranno queste nazionalità rappresentate anche nei personaggi di Tony Toponi e Bridget, due giovani idealisti che si battono per l’emancipazione dei topi e la loro integrazione nella società come parte rispettata e valorizzata.
Inoltre, l’incontro con il piccione francese Henri insegna a Fievel un altro aspetto dell’emigrazione. Con il suo infaticabile ottimismo, Henri – che vive nella Statua della Libertà – racconta lo spirito positivo della faccenda, quello di chi ha realmente trovato nello sbarco in America una rinascita e un rinnovato senso di libertà. Differente, invece, è il personaggio di Lucky LoRatto, un gatto che si spaccia per ratto per riscuotere il pizzo dai topolini. Indubbiamente, LoRatto incarna la criminalità nata in seno ai flussi migratori, che danneggiava in prima battuta proprio i suoi simili. Infine, Tigre, il gatto imbranato e adorabile che stringe amicizia con Fievel, ricordando al piccolo protagonista – e a tutti gli spettatori – che, nonostante le differenze di provenienza e aspetto, chi intraprende un viaggio alla ricerca di una vita nuova e migliore, fa parte di una grande e unica famiglia.