Fino all’ultimo indizio: recensione del thriller con Denzel Washington e Rami Malek
Una parata di star al servizio di una storia priva di mordente, Fino all'ultimo indizio di John Lee Hancock cerca di stabilizzarsi a fatica da un terreno scosceso che ci prepara twist poco impattanti.
Fino all’ultimo inizio è la prima novità assoluta sfornata dalla Warner Bros. nel 2021: una pellicola molto attesa principalmente per un cast d’insieme che vuole imporsi senza riserve. Abbiamo Denzel Washington nei panni dello sceriffo della contea di Kern Joe “Deke” Deacon, chiamato nel distretto della polizia di Los Angeles per raccogliere prove forensi relative a un recente omicidio. Accompagnato dal nuovo detective capo Jimmy Baxter (Rami Malek), individua delle somiglianze tra il modus operandi dell’omicidio con un vecchio caso di omicidio seriale ai danni di tre giovani ragazze che non è stato in grado di risolvere durante la sua carriera da detective. I due iniziano ad indagare su Albert Sparma (Jared Leto), un potenziale sospetto che lavora in un negozio di riparazioni in prossimità degli omicidi. La caccia fra gatto e topo ben presto si trasformerà in un regolamento di conti fra un passato indomato e una ossessione compulsiva per casi rimasti in sospeso per un considerevole lasso di tempo. Il film è disponibile per il noleggio e l’acquisto su tutte le piattaforme on demand da venerdì 5 Marzo.
Fino all’ultimo indizio: “Il passato diventa il futuro che diventa il passato”
Una impostazione classica, fondata su un killer da individuare e stanare a tutti i costi: Fino all’ultimo indizio prende una conduzione apparentemente pacata e vuole giocare con le aspettative del pubblico, cercando di concentrarsi sull’instabilità di un personaggio affranto, completamente solo, non più stimato dai suoi colleghi. Joe Deacon è interpetato da Denzel Washington, di ritorno sulle scene dopo tre anni di assenza dal grande schermo (il suo ultimo ruolo è stato quello di Robert McCall di The Equalizer 2 – Senza Perdono). Alimentato dall’odio verso un pluriomicida che non ha forma e volto per tutta la prima parte del film, Deacon rimane focalizzato sulle piccole cose, su dettagli impercettibili che possono inchiodare un sospettato. Una continua ricerca di indizi tra i più disparati lo tormenta ad ogni ora del giorno, fino a perdere il contatto con una realtà dipinta di colori tendenti all’ocra e modellata da una fotografia ricercata a cura di John Schwartzman.
Il film di John Lee Hancock (The Blind Side, Saving Mr. Banks) viene sviluppato da un copione – sempre scritto dal regista – spento, non reattivo, incapace di giocare le sue carte vincenti, che siano le performance attoriali o il tono e il ritmo adottato. Sospesi in un delirio post-traumatico che fornisce rivelazioni importanti solo a fine corsa, la componente del thrilling viene totalmente a mancare e ci possiamo affidare unicamente alle espressioni incisive regalate dal Premio Oscar per Glory e Training Day. Rami Malek si insinua nel girato con poca partecipazione, investendo del tempo a definire un personaggio di contorno allucinato e alienato dal mondo. Il suo sergente Jim Baxter rappresenta un cane sciolto ma senza reali poteri decisionali, una figura incolore e insapore che non interagisce in maniera convincente con un fuoriclasse come Washington. La mancanza di chimica fra i due stupisce in negativo, e ci costringe a seguire le indagini con sguardo distaccato e con un livello di attenzione tendente al ribasso.
L’atmosfera glaciale integrata in una Los Angeles spogliata di piaceri e svaghi
Fino all’ultimo indizio coinvolge più per l’impatto scenografico che per altri elementi che dovrebbero rilevarsi fondamentali per la sua (almeno parziale) riuscita. Viene ritratta una Los Angeles arida, deserta, talmente segnata dai crimini che vengono accennati che diventa quasi una città fantasma: i vicoli, i lunghi tratti autostradali, le abitazioni in disuso e i poliziotti in servizio mostrano un rifiuto per l’estetica rifinita al dettaglio, come se fossero parte di un ingranaggio spezzato dal principio. Le indagini non sono più importanti e la caccia al killer assume contorni lugubri e funerei, dal momento in cui il personaggio di Albert Sparma (Jared Leto in versione mattatore, un profilo apparentemente senza macchia ma stravagante ed eccentrico al punto giusto) fa la sua apparizione a metà racconto.
I protagonisti si ritrovano in binari completamente differenti l’uno dall’altro, senza una meta prestabilita e pronti a perdersi nel deserto di informazioni vaghe. Nessuna prova schiacciante a disposizione per tracciare una ipotesi sensata, nessuna svolta decisiva nel tentativo di risolvere definitivamente un caso rimasto in sospeso per troppo tempo; questa condizione si riflette in una narrazione sconnessa dalla realtà, con un climax discendente che rappresenta la croce e delizia di un titolo insicuro sulla sua identità. Colui che dovrebbe tenere le redini dell’andamento delle riprese e degli intrecci sparisce inspiegabilmente, lasciandosi sostituire da un attore protagonista che procede col cambio automatico in gesti, sguardi e battute ambigue. Si prova, in questo modo, a ravvivare le sorti di un film facilmente dimenticabile che non può affidarsi a nessun colpo di scena per riposizionarsi sulla retta via.