Fiore mio: recensione del film di e con Paolo Cognetti
Paolo Cognetti, dopo l'enorme successo di Le otto montagne (il suo romanzo e il film), torna a raccontare la montagna scrivendo e dirigendo Fiore mio, in sala dal 25 al 27 novembre 2024.
C’è la montagna nella testa, nel cuore e, d’ora in poi, nel cinema di Paolo Cognetti. Lo scrittore milanese vince il Premio Strega nel 2017 con il suo fortunato romanzo Le otto montagne, che nel 2022 diventa un film altrettanto fortunato diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch con protagonista la coppia d’oro del cinema italiano, Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Se per Paolo Cognetti Le otto montagne era cinema per interposta persona, l’esperienza di Fiore mio, presentato in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Locarno Film Festival e nelle sale italiane il 25, 26 e 27 novembre 2024, distribuisce Nexo Studios, è tutta un’altra storia: il documentario lo scrive – soggetto e sceneggiatura – lo dirige e lo interpreta. C’è Paolo Cognetti davanti la macchina da presa, e dietro. Nel mezzo, a dominare la scena, a dar forma ai pensieri e a modellare i discorsi, c’è lei. La montagna.
Fiore mio: la siccità e il viaggio alla scoperta della montagna
La montagna è il Monte Rosa, che non deve il nome al fatto che al tramonto le cime innevate assumono quella particolare, delicata, sfumatura. Quest’ironica e apparentemente frivola precisazione Paolo Cognetti la sistema, come se niente fosse, all’inizio di un film decisamente ibrido, documentario-autobiografia-poesia per immagini; in realtà, è importantissima. Per sapere cosa realmente significhi il termine Monte Rosa bisognerà andare al cinema, non è il tipo di spoiler che si addice a una recensione, ma non è questo il punto. Il punto di Paolo Cognetti con Fiore mio è lavorare ai fianchi della montagna, raccontandola in cima e a valle, per parlare del passato, del presente e del futuro, del rapporto con l’uomo, liberando il campo dai pregiudizi, dalle mezze verità e dalle facili semplificazioni.
L’ingenua semplificazione sul Monte Rosa è il riflesso dello sguardo della gente di città, quello sguardo impreciso – forse è inevitabile – che Paolo Cognetti ha sempre cercato di correggere, ma con la disponibilità dello scrittore e non con la superbia dell’intellettuale che sale in cattedra e punta il dito in direzione della verità. Fiore mio è un film sul rapporto tra l’uomo e la natura, sui modi con cui la montagna cambia per il meglio la vita dell’uomo, sulla ricerca della giusta armonia tra l’uomo e la montagna. La situazione è critica. Comincia tutto nel 2022, nell’estate del 2022, con la siccità che non risparmia nemmeno la montagna. Arriva fino a Estoul, la casa di Paolo Cognetti, 1700 metri di quota sopra la valle di Brusson, esaurendone la sorgente. La sorgente prosciugata e la ricerca dell’acqua sono il concreto e funesto presentimento a partire dal quale Paolo Cognetti, in compagnia dell’instacabile cane Laki, compagno di traversate, costruisce la scalata cinematografica della montagna.
La racconta nei volti e nelle parole dei suoi abitanti, si tratti di Sete, lo sherpa nepalese dalla risata contagiosa che è un po’ la sua filosofia di vita, del suo maestro Arturo, di sua figlia Marta o della giovane Mia che vive sospesa tra due mondi. Ogni tappa ha un rifugio, ogni rifugio porta più vicino al cuore della montagna – si chiamano Quintino Sella, Orestes Hutte e Mezzalama – e ha il suo custode, ogni custode porta con sé una particolare visione della montagna, dei suoi problemi e delle sue opportunità. Il viaggio di Fiore mio, un rifugio dopo l’altro, una persona dopo l’altra, trova la sua coerenza nello sguardo di Paolo Cognetti, poeta e cronista, e nella verità che la montagna ci trasmette. Emerge, in controluce, in ciascuna delle testimonianze raccolte dal film. Ha a che fare con il cambiamento.
La montagna ha cose importanti da insegnare a chi la ascolta
Ci sono due modi di raccontare la montagna: poetico o crudamente realistico. Ci sono due modi, per Paolo Cognetti, di sviluppare un discorso moderno, attuale, sulla montagna e sul rapporto uomo-montagna: nascondersi dietro la storia tramite l’artificio di una mediazione (uno o più alter ego), o mettersi in gioco. Ci sono due modi di accogliere il cambiamento, climatico e non, che condiziona l’uomo e la montagna: negarlo con ostinazione o accettarlo, cercando di capire come tirare fuori il meglio da una situazione complicata come quella che cambia il mondo intorno a noi e i suoi significati.
Paolo Cognetti costruisce Fiore mio posizionandosi a metà strada tra realismo e deformazione onirica, rivolgendo contro se stesso la macchina da presa e inquadrando il cambiamento in un’ottica sofferta e pragmatica, ma non senza speranza. Il rapporto uomo-natura, il sogno di un’armonia diversa, migliore della confusione attuale, parte da un’esplicita (e salutare) ammissione di umiltà: è la montagna che insegna e l’uomo che ascolta. Paolo Cognetti si “riprende” la sua casa parlandone in prima persona, quasi volesse – in maniera del tutto amichevole – riappropriarsene dopo che Le otto montagne gli scivola dalle mani e diventa un film di successo. La sua presenza, davanti e dietro la macchina da presa, espone Fiore mio al rischio di deragliare un po’, regalando troppo spazio all’uomo in primo piano e non abbastanza alla montagna sullo sfondo.
Se questo non accade il merito è dello sguardo largo del regista e sceneggiatore. Non è mai da solo in scena, si tratti dell’amico Remigio, del fidato cane Laki o dei custodi incontrati un rifugio dopo l’altro. Si tratti, ancora, dietro la macchina da presa, dei preziosi collaboratori come il direttore della fotografia Ruben Imprens o l’autore delle musiche Vasco Brondi. Il popolo della montagna, Fiore mio lo raccoglie per raccontare allo spettatore il mondo che cambia. La natura troverà il modo di sopravvivere al cambiamento, noi no. Un modo intelligente di sopravvivere, spiega Paolo Cognetti, è dare ascolto alla montagna. Come? Avvicinandosi, rivalutando il silenzio, provando a cambiare il nostro modo di pensare.
Fiore mio: valutazione e conclusione
Paolo Cognetti è innamorato della montagna e della sua bellezza al punto da easperarne un po’ il racconto, con Fiore mio. Narrativamente, l’interessante ibrido tra documentario e confessione intima è un mix equilibrato di realismo e dilatazione poetica, di esposizione in prima persona e ascolto delle ragioni degli altri. Esteticamente, un affresco forse troppo compiaciuto della sua eleganza, della sua bellezza, caricate anche oltre il necessario in termini soprattutto di qualità e ricercatezza dell’immagine. Colpisce, di Fiore mio, la lucidità della argomentazioni, l’accettazione serena e malinconica del cambiamento e l’invito a ricostruire il rapporto con la montagna partendo da presupposti di umiltà e rinnovamento interiore. Un discorso potente e non urlato, coerente perché cucito su misura della montagna.