Flight: recensione del film di Robert Zemeckis
La vicenda raccontata in Flight prende spunto da quanto accaduto al volo Alaska Airlines 261 nel 2000, quando il velivolo precipitò nell'Oceano Atlantico per un guasto tecnico.
Robert Zemeckis affida a Denzel Washington il ritratto del discusso pilota protagonista di Flight, uomo dall’innegabile eroismo che oltre ad ammettere le proprie debolezze ne ha anche pagato le conseguenze. Whip è un pilota di voli di linea dall’esperienza decennale, la cui vita lo ha portato a rifugiarsi nell’alcool e nell’annebbiamento delle droghe per sopravvivere in un limbo dall’equilibrio esatto ma precario. Durante un turno di volo, l’aereo precipita per un guasto tecnico e solo la sua spiccata prontezza di riflessi gli permette di effettuare una manovra estrema e salvare tutte le persone a bordo. Tutto questo, però, sotto l’effetto di alcool e stupefacenti.
Mentre il mondo intero lo elogia per quanto fatto, Whip cerca di alleviare la sua sofferenza esistenziale confessando che aveva fatto uso di sostanze proibite, mettendo inevitabilmente in moto la macchina della giustizia nazionale, implacabile almeno con chi come lui è un’anima in pena.
La vicenda raccontata in Flight prende spunto da quanto accaduto al volo Alaska Airlines 261 nel 2000, quando il velivolo precipitò nell’Oceano Atlantico, anch’esso per un guasto tecnico. In quel caso, però, non ci furono sopravvissuti all’incidente. A differenza dell’inequivocabile eroismo attribuito, per esempio, a un altro pilota cinematografico come il Sully di Clint Eastwood, Denzel Washington deve mettere in scena un’anima ben più travagliata, una figura molto controversa proprio nel momento in cui si mettono in discussione le regole apparentemente inopinabili che guidano la sicurezza mondiale.
Tutta la consapevolezza del ruolo richiesto da Zemeckis si riversa negli occhi del protagonista: nell’arrossamento delle cornee, nel modo di guardare il vuoto come se in esso si nascondesse il segreto per ritrovare la serenità. Perché in fondo è proprio questo ciò che cerca Whip, una pacifica convivenza con se stesso, dopo storie andate male e progetti personali falliti.
Robert Zemeckis con Flight torna ad affrontare una storia di solitudine, proprio come era stata quella di Cast Away, con la differenza piuttosto evidente che in questo caso si tratta di un modo di vivere totalmente diverso. Essere isolati in mezzo alla folla, cercare di accettare se stessi anche nei momenti più bui e di fronte ad azioni senza dubbio discutibili: sono sfide di questo calibro quelle che Whip si trova a combattere quotidianamente. Il regista ha scelto la sceneggiatura di John Gatins e, insieme a questa, la possibilità di tornare al live action (12 anni dopo il film del genere precedente) con una storia che pur basandosi su un fatto reale, ne arricchisse le forme con un dramma personale.
In qualche modo, dunque, Zemeckis ha sostituito la tragedia della cronaca nazionale (la morte di equipaggio e passeggeri) con un rapporto a dir poco problematico con se stessi. A una plateale commozione globale si oppone un contrasto intimo, che provoca perplessità in chi circonda il protagonista, non sapendo più se appellarsi alla rigidità della giustizia o se invece affidarsi ai fatti che, dopo tutto, raccontano di un’impresa eroica nonostante il mancato rispetto delle regole.
Flight pone davanti a un interrogativo: evidenzia la leggerezza con cui spesso ognuno prende decisioni quotidiane, la catena di eventi che esse scatenano senza che ce ne rendiamo conto, le prospettive inattese in cui le persone si trovano, senza neanche sapere come ci sono finite. La vita di ciascuno procede così, a tentativi, a decisioni prese e repentini ripensamenti. Denzel Washington mette magistralmente in mostra tutto questo. E anche di più.