Fortuna: recensione del film di Nicolangelo Gelormini con Valeria Golino
L'opera prima di Nicolangelo Gelormini è un viaggio ipnotico nella periferia di Napoli, una chiave di lettura implicita di un terribile fatto di cronaca.
Tutti siamo stati bambini, finché non lo siamo stati più. C’è chi, come Fortuna Loffredo, è stata sputata via dalla giostra dell’infanzia prima degli altri, ed ha smesso di essere bambina troppo presto. Ha voluto ricordarcelo Nicolangelo Gelormini, regista che ha dato tutto se stesso in quello che rappresenta il primo lungometraggio da lui scritto, diretto e montato, intitolato semplicemente Fortuna.
Fortuna, Nicolangelo Gelormini invita il pubblico ad immaginare l’inenarrabile
Il terribile fatto di cronaca a cui fa riferimento il film, presentato lo scorso ottobre alla Festa del cinema di Roma, risale a sette anni fa e, tramite la sua opera prima, Gelormini ha scelto di tenere vivo il ricordo di Fortuna Loffredo, la bambina volata giù dall’ottavo piano di un palazzo di Caivano, nella provincia di Napoli. Lo ha fatto tramite una chiave di lettura tutt’altro che banale, prendendo per mano gli spettatori e portandoli nell’inferno di quel palazzo in cui gli abusi sui minori erano all’ordine del giorno, tra l’omertà e l’indifferenza di tutti, troppo impegnati a sopravvivere o sguazzare nel degrado in cui sono stati partoriti e rimasti per tutta la vita. Nel corso del film, al cinema dal 27 maggio 2021, il pubblico non assiste a scene esplicite di violenza fisica ma percepirà dall’inizio alla fine l’angoscia provata da Fortuna, interpretata dalla piccola Cristina Magnotti, nonché il disagio che regna in determinate realtà periferiche del sud Italia.
Un esperimento già portato sul grande schermo da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza con Sicilian Ghost Story del 2017, legato invece alla sparizione e all’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Un’opera ipnotica che raggiunge il culmine della propria forza espressiva tramite la proiezione in sala, lì dove è ancora più consigliabile la visione e l’ascolto, poiché il sonoro in quest’opera ricopre un ruolo estremamente importante: urla e suoni stridenti, disturbanti quanto il raschio sulla lavagna, spaccano il silenzio in cui si chiude la giovane protagonista, incapace di difendersi dal branco di bestie che la circonda. L’unico modo per rimanere a galla e continuare a sperare che qualcuno la salvi è quello di inventare e rincorrere una nuova identità, diventare qualcun altro e immaginare un contesto diverso intorno a sé, con tanto di riassegnazione dei ruoli delle persone che la circondano ed il desiderio di lasciare questo mondo per volare su un altro pianeta, per tornare ad essere soltanto una bambina che sogna di diventare una regina o più semplicemente di godere dell’innocenza che dovrebbero sempre caratterizzare gli anni dell’infanzia.
L’infanzia spezzata e la cecità degli adulti
Parafrasando una canzone italiana, viene da chiedersi se la scelta di dare a questa bambina il nome Fortuna non sia stato che un “presagio al contrario”. In questo caso, nascere in un posto dimenticato da Dio è infatti soltanto una sfortuna, una disgrazia. Fortuna è di certo un film che non lascia indifferenti, non semplice da digerire, sostenuto sia dalla criptica resa registica di Gelormini che dalle interpretazioni delle donne protagoniste. Pina Turco porta sullo schermo la mamma di Fortuna, una donna troppo distratta dai propri fallimenti per riuscire a rendersi conto di ciò che di drammatico accade a sua figlia. Lo spirito materno, in questo caso, emerge tramite la figura della psicologa interpretata da Valerio Golino, unica adulta dotata di umanità e compassione con cui Fortuna si relaziona. Sarà lei a conquistare la fiducia della bambina e ad avvicinarsi alla verità, ma non farà in tempo a salvarla dal suo aguzzino.
Per quanto riguarda la fotografia e la messa in scena, risulta estremamente efficace la scelta di colori tenui e di luminosità quasi accecanti, che così non fanno altro che stonare con l’oscurità che viene narrata dall’inizio alla fine del film. Un film metafisico, in cui trova ampio spazio una simbologia che spinge lo spettatore a lavorare di fantasia e nel quale nessun dettaglio è stato messo lì per caso. La piccola Fortuna ha paura dei giganti, eppure i suoi nemici non sono altro che le persone che la circondano, estremamente piccole e misere di animo.
L’onirismo e la cura del dettaglio appresi dai maestri del genere
La visione di Fortuna rappresenta un’esperienza spiazzante che fa ben sperare per il prosieguo della carriera di Nicolangelo Gelormini, il quale lascia ampio spazio ai toni onirici che ha assorbito e reso propri anche grazie alle collaborazioni passate con Paolo Sorrentino e David Lynch, due autori e due registi che rappresentano al meglio questo genere cinematografico, da cui Gelormini ha ereditato la voglia di rendere perfetto ogni minimo dettaglio dell’inquadratura, anche e soprattutto quando si tratta di mostrare, tramite la camera, qualcosa che di perfetto non ha assolutamente nulla e che rasenta invece lo squallore più totale, trasmesso in questo film tramite suoni, sguardi e tanti altri elementi che rendono l’opera straniante, al limite del sopportabile. Durante la visione, gli spettatori che conoscono già il fatto di cronaca capiscono sin da subito il linguaggio di Gelormini. Per tutti gli altri, invece, alla fine del film arriva la narrazione di quanto accaduto ed i suoi risvolti legali. Il puzzle, a quel punto, si completa da solo e tutto diventa drammaticamente più chiaro.