Fullmetal Alchemist: La vendetta di Scar – recensione del film Netflix
Il secondo capitolo della saga tratto dal manga di Hiromu Arakawa, vede il ritorno di Sori alla regia, che per l'occasione amplia i riferimenti alla lore del franchise
In occasione del ventesimo anniversario della creazione del manga Fullmetal Alchemist di Hiromu Arakawa, è uscito nei cinema giapponesi, nel maggio 2022, il film Fullmetal Alchemist: La vendetta di Scar di Fumihiko Sori, secondo capitolo di una trilogia, distribuita da Warner Bros, che ha l’obiettivo di adattare, grosso modo, l’intera saga di Arakawa.
Il film, sequel di Fullmetal Alchemist (Sori, 2017) è disponibile, dal 20 agosto 2022, in streaming su Netflix, piattaforma che, ormai, funge anche da archivio per tutta una serie di trasposizioni filmiche di noti manga degli anni novanta del secolo scorso e dei primi anni del ventunesimo secolo – fra gli esempi più significativi, le saghe di Death Note e Rurouni Kenshin.
Fullmetal Alchemist: La vendetta di Scar parte da dove si interrompeva il primo film. L’alchimista d’acciaio, Edward Elric (Ryosuke Yamada) e il fratello minore, la cui anima è stata sigillata in un’armatura medievale vivente, Alphonse Elric (Atomu Mizuishi), sono diretti a Central City, la capitale di Amestris, perché Edward deve sostenere l’esame per diventare alchimista di Stato. Arrivati in città, però, scoprono che un individuo noto come Scar (Mackenyu Arata), sta uccidendo proprio tutti gli alchimisti di Stato. Tentando di fermare Scar, i due protagonisti vengono a conoscenza della storia del massacro compiuto dall’esercito di Amestris ai danni del paese ribelle di Ishval. Nel frattempo gli homunculus del primo film continuano a tramare nell’ombra.
Questo sequel espande il mondo delineato nel primo capitolo e porta sullo schermo ulteriori elementi della lore del franchise, dando spazio alla saga di Ishval e a personaggi fondamentali, ma precedentemente non inseriti, come il principe Ling (Mackenyu Arata) o l’homunculus Wrath (Hiroshi Tachi).
La CGI appare più curata e le scene d’azione guadagnano una pulizia formale, assente nel film del 2017. La messa in scena, al contrario, rimane molto piatta e priva di particolari degni di nota.
Tuttavia il maggiore difetto della regia di Sori consiste nella direzione degli attori. Nel tentativo, infatti, di essere il più fedele possibile alle caratterizzazioni del manga, il regista spinge i protagonisti a sovraccaricare ogni gesto ed emozione. Se in alcuni casi questo stile può essere funzionale al tipo di racconto trasposto, nel caso di Edward o di Winry (Tsubasa Honda), l’amica d’infanzia dei fratelli Elric, rappresenta un caso estremo di overacting. Tale elemento, unito a costumi troppo pedissequi nel voler riprodurre il look fumettistico, in alcuni momenti rischia di porre lo spettatore nella condizione di chiedersi se non si trovi davanti a una rappresentazione messa su da dei cosplayer, durante qualche fiera del fumetto.
Ciò che invece risulta interessante in Fullmetal Alchemist: La vendetta di Scar è la visione di una realtà, che, radicata nel nostro mondo (Amestris è restituita attraverso scorci di reali città europee), muta in continuazione la propria morfologia grazie agli effetti visivi digitali. Un tale luogo dell’immaginario, con i suoi mattoni che si sgretolano come pixel e le sue architetture manipolate a piacimento dagli alchimisti, diventa una rappresentazione plastica di come l’apparenza del mondo possa essere modificata a piacimento dagli uomini. Una rappresentazione, dunque, del mondo come immagine in movimento, o meglio, in transizione da una forma a un’altra. In poche parole, l’universo descritto nel film è un’enorme metafora della capacità del cinema contemporaneo di rappresentare la realtà, non più come qualcosa di assoluto, che esiste al di là dello sguardo umano, ma come un insieme di forme che solo quello sguardo, attraverso un dispositivo di riproduzione delle immagini (la magia/alchimia del cinema), può ordinare e riordinare all’infinito, o comunque fino a giungere all’essenza del reale – la Verità, qui, è un’entità fantasmatica, composta di fumo, in grado di inglobare tutte le forme del creato.
Non è allora un caso che tutti i protagonisti, in un modo o nell’altro, siano dei corpi in divenire, non più fissi nella forma umana, ma neanche completamente “altri”. Edward ha arti d’acciaio, Alphonse è praticamente un golem di ferro con anima umana, cioè sono entrambi dei proto-cyborg, corpi che si pongono al limite fra organico e inorganico. Gli homunculus, in particolare, non hanno una propria fisionomia definita, ma mutano parti del proprio organismo, a piacimento, in forme aliene – Envy (Kanata Hongō) può addirittura assumere il sembiante di altri personaggi. Il villain Scar è un corpo segnato da ferite, le quali, volendo seguire la lezione cronenberghiana, rappresentano un ulteriore indice di questo processo di mutazione corporea in atto.
I corpi attoriali organici insomma si fondono in Fullmetal Alchemist. La vendetta di Scar con protesi ed elementi di CGI, per restituire una immagine umana stilizzata, qual è quella del manga. Così lo statuto stesso dell’identità di specie umana viene messo in discussione all’interno delle coordinate di un universo filmico che fa della trasmutazione, il paradigma fondante di ogni interpretazione del reale. Non esiste una realtà fissa, cui l’umano può guardare per costruire un senso assoluto, spirituale e fisico, da attribuire alla propria esistenza, ma un insieme di forme che egli, con tecnica e volontà (l’alchimia/cinema) deve riorganizzare in eterno e dalle quali emerge, di volta in volta, il senso più adeguato al concetto di uomo, per il momento storico vissuto.
Peccato che una tale riflessione estetica emerga dalla mediocre messa in scena di una sceneggiatura troppo incentrata sulle colpe belliche del Giappone imperiale. Colpe, tra l’altro, risolte in un universalismo pacifista poco credibile.