Gangs of New York: recensione del film di Martin Scorsese
Riconosciuto come uno dei lungometraggi più ambiziosi di Martin Scorsese, Gangs of New York è un minuzioso affresco degli Stati Uniti di metà Ottocento.
Riconosciuto come uno dei lungometraggi più complessi, ambiziosi e virtuosi del regista, Gangs of New York di Martin Scorsese si presenta come un minuzioso affresco della condizione socio-politica degli Stati Uniti di metà Ottocento, lacerati dalla brutalità della Guerra Civile. Diretto nel 2002 a partire da una sceneggiatura scritta da Jay Cocks –che ha collaborato con Scorsese anche nella realizzazione de L’età dell’innocenza nel 1993 e di Silence nel 2016–, Stephen Zillian e Kenneth Lonergan, il film è l’epopea di una vendetta che, partendo dal microcosmo familiare, esplode e si trasforma in una rappresentazione macroscopica dell’intera storia americana.
Gangs of New York: una storia di violenza,
dolore e vendetta
Degradato teatro della violenza di due bande criminali rivali e desiderose di ottenere la supremazia sul territorio, il quartiere di Five Points è essenzialmente definito dalla divisione tra i Nativi che, nazionalisti e di fede protestante, sono capeggiati dal luciferino William “Bill” Cutting –conosciuto con l’epiteto de “il Macellaio”– e i Conigli Morti, discriminati a causa del loro essere irlandesi e cattolici e guidati da Padre Vallon, il quale verrà ucciso dal rivale durante la sanguinosa battaglia, decretando in questo modo l’egemonia dei protestanti.
Ambientato nella New York del 1863, Gangs of New York trova il suo punto focale nella vicenda del protagonista Amsterdam Vallon, il figlio di Padre Vallon che, risparmiato dal mostruoso Macellaio, è in cerca di sangue e vendetta. Eppure il film si evolve rapidamente, abbandona totalmente la dimensione privata di cui era narratore e arriva ad essere una fotografia accurata della condizione americana dell’epoca che, ancora lontana dall’essere un tentativo di raggiungere l’ideale dell’equità e della democrazia, era caratterizzata dalla presenza di una ferocia ingiustificata, priva di senso logico.
Narrazione epica della violenza su cui si è fondata la moderna democrazia americana che si sviluppa attorno a The Gangs of New York: An Informal History of the Underworld (1928) –un saggio del giornalista Herbert Ausbury che documentava della criminalità che, durante il XIX secolo, dettava le leggi della città–, il lungometraggio nasce da un’idea che, partorita durante i primi anni Settanta, Martin Scorsese e il sceneggiatore Jay Cocks riusciranno a realizzare solamente nel 1999 grazie all’importante aiuto del produttore Harvey Weinstein, dopo un percorso travagliato durato diversi decenni e dovuto non solo alla mole dell’opera, ma anche alle minuziose pretese del regista stesso.
Ciò che più stupisce di Gangs of New York è la precisione con cui la ricostruzione di un’intera gerarchia sociale viene offerta allo spettatore: il regista utilizza una minuziosità fuori dal comune che costringe il pubblico a seguire le caotiche vicende che sconvolgono il quartiere in cui il film è ambientato, vicende che, partendo dalla storia personale di Amsterdam Villon, si spostano ad un paesaggio più esteso, quello dei disordini di New York e della più importante Guerra Civile Americana, descritti attraverso uno sguardo ipnotizzante, intenso e brillante.
Oltre alla meticolosità della realizzazione, alla fotografia realistica e ammaliante e alla veridicità storica, il valore aggiunto di Gangs of New York si riconosce senza ombra di dubbio nella persona di Daniel Day-Lewis che, nel ruolo dell’antagonista Bill il Macellaio, riesce ad annebbiare e sminuire con la sua maestria e la sua personalità la performance del resto del cast, tra cui compaiono anche i nomi di attori del calibro di Liam Neeson, John C. Reilly e Leonardo DiCaprio nei panni del protagonista.
Con la sua presenza diabolica, il personaggio interpretato dall’attore britannico –uno tra i migliori della sua generazione– si presenta con una complessità fuori dal comune: durante la preparazione di tale ruolo, in modo da rendere l’interpretazione più credibile, Day-Lewis decide di imparare a lanciare coltelli e a praticare il mestiere del macellaio, rifiutando le cure mediche che avrebbero dovuto curare la polmonite che gli era stata diagnosticata durante le riprese. In questo modo, l’attore riesce a catturare l’attenzione dello spettatore per tutta la durata del film e offrendo un personaggio difficile da interpretare, dalle mille sfaccettature. In poche parole, un personaggio reale.
Costruito sotto il segno del virtuosismo –che definisce non solo l’essenza del montaggio, della recitazione e dei movimenti della macchina da presa, ma anche e soprattutto della scenografia, allestita interamente negli studi di Cinecittà–, il lungometraggio tocca e sviluppa tematiche che hanno da sempre definito la filmografia di Martin Scorsese, partendo dalla complessità del crimine organizzato e dalla società newyorkese, città in cui il regista è nato e cresciuto, fino ad arrivare al tema dell’immigrazione, della violenza e del sogno americano.
Privo di ogni sfumatura di sentimentalismo, Gangs of New York è immerso in un’atmosfera di spietatezza, dalla quale lo spettatore –così come il protagonista– deduce naturalmente che la vita non è altro che soppruso, dolore e violenza. Una violenza che viene resa cinematograficamente tramite lo sguardo anaffettivo del regista, capace di distaccarsi dalla vicenda narrata, restituendola in maniera totalmente distaccata, imparziale, veritiera e, proprio per questo, profondamente amara.
Osservando attraverso gli occhi del personaggio principale il mosaico di caos e violenza generato da Scorsese, lo spettatore assiste ad una creazione artistica pura e sincera che, grazie alla sua trasparenza, finisce con l’attrarlo sempre più e che si trasforma in critica possente e cinica sulla democrazia delle origini pronunciata con un’intensità feroce, lucida e, a tratti, carica di una vena grottesca che potrebbe riportare alla mente la dolorosa ironia del realismo letterario di Charles Dickens.
Gangs of New York termina con un’immagine che magari, ad una rapida occhiata, potrebbe semprare inutile, priva di qualsiasi significato: la New York di oggi con il suo skyline. Eppure quello che Scorsese decide di mostrare non è lo skyline a cui ci siamo ormai abituati. Sono ancora presenti, di fronte all’orizzonte, le due torri gemelle del World Trade Center. Sebbene il film sia stato distribuito nel 2002, un anno dopo il tragico evento, loro sono ancora lì quasi a ricordare che la separazione esiste ancora e, con lei, anche l’intolleranza. L’età dell’odio, forse, non è ancora terminata.