Gli occhi del diavolo: recensione del film di Daniel Stamm
Nonostante la curiosità di una storia di possessione al femminile, Gli occhi del diavolo, regia di Daniel Stamm, manca di vitalità e di autentica originalità. In sala dal 24 novembre 2022.
Gli occhi del diavolo racconta un orrore in bilico tra passato e presente. Nelle sale italiane dal 24 novembre 2022, distribuisce Eagle Pictures, il film, diretto da Daniel Stamm e interpretato da Jacqueline Byers, Colin Salmon, Virginia Madsen e Ben Cross, prova a rileggere e attualizzare convenzioni e stilemi di genere. Se di horror si parla, sottogenere possessione demoniaca e affini, il tentativo è di modernizzarne l’anima partendo dalla confezione, con un’attenzione particolare a cosa si rappresenta e come, ragionando sul rapporto tra fede e razionalità. Lo sforzo non paga, prevedibilmente Gli occhi del diavolo finisce per centrifugare tanto, troppo, l’impressione (e forse qualcosa in più) è di un racconto caotico e impreciso. Ma lo shock è solido e, sinceramente, una donna esorcista è una cosa che al cinema mancava.
Gli occhi del diavolo: il dono di Suor Ann può fare davvero la differenza
Suor Ann è speciale. La sua diversità ha radici profonde. È spigliata, intraprendente, moderna. Gli occhi del diavolo prova a fare la rivoluzione, affermazione pesantuccia che va necessariamente inquadrata dentro i limiti e le possibilità del genere, costruendo le sue inquietudini e i suoi spazi di paura attorno a un discorso di femminilità oppressa ma pronta, finalmente, a prendersi il centro della scena. L’infanzia di Ann è orribile. Cresce accanto a una mamma (Koina Ruseva) schizofrenica e inaffidabile. Con il passare del tempo si convince che la malattia e la razionalità, da sole, non possano spiegare tutto, dello strano comportamento della donna. C’è qualcosa “dentro” di lei, questa l’ipotesi di Ann.
Di diverso avviso è il dr. Peters (Virginia Madsen). Per la giovane, è passato un po’ di tempo dagli anni turbolenti dell’infanzia, rappresenta un solido scoglio di pragmatismo in un mondo altrimenti popolato di terrori soprannaturali e forme spaventose. Gli occhi del diavolo immagina che il Vaticano, per contrastare l’aumento esponenziale dei casi di possessione demoniaca, decida di aprire scuole di esorcismo, a Roma e dappertutto. Suor Ann, si è fatta suora nel frattempo, lavora proprio in una di queste strutture, un’accademia dell’impossibile a metà strada tra Hogwarts e una puntata di Grey’s Anatomy, con il demonio al posto della vostra malattia preferita (e molto meno sesso). La generale misoginia e la gerarchizzazione dei ruoli e delle prerogative in seno alla Chiesa riservano alle suore compiti di cura e assistenza dei “malati”. Per tradizione e statuto le donne non possono praticare esorcismi. Fino a che non arriva Suor Ann.
Per la verità ci sarebbe un precedente vecchio di settecento anni, è il film a ricordarcelo, ma è passato tanto di quel tempo che quasi nessuno se lo ricorda più; il record di Ann è valido lo stesso. La ragazza ci sa proprio fare con gli esorcismi. Ha i nervi saldi, una fortissima carica di empatia, sa quando è il momento di andare fuori spartito e quando è necessario rimettersi in carreggiata. Sia la sua coggiutaggine, siano le larghe vedute di Padre Quinn (Colin Salmon) che per arrivare allo scopo riesce a lavorarsi il Cardinal Matthews (Ben Cross), fatto sta che la protagonista rompe il muro di gomma e, superate le perplessità iniziali, riesce a farsi accettare dai colleghi maschi. D’altronde, la purezza del suo talento è fuori discussione. Se ne rende conto l’amico e collega Padre Dante (Christian Navarro); le chiederà aiuto per risolvere una questione personale. Lo intuisce la piccola Natalie (Posy Taylor), che si ritrova “occupata” da una presenza molto familiare per Ann. In fin dei conti, se la posta in gioco è il trionfo del Bene sul Male, tanti saluti ai club per soli uomini.
Di paragoni illustri e di ambizioni non sostenute
Si è parlato si sottogenere horror e la cosa ha un senso; i riferimenti sono tanti, alcuni persino degni di nota. Naturalmente, qualunque discorso si possa o si voglia costruire attorno a Gli occhi del diavolo, ineludibile è la questione dei rapporti con il paragone illustre. Daniel Stamm, che dirige su sceneggiatura di Robert Zappia, “ruba” a William Friedkin e a L’esorcista una dialettica furiosa tra ragione e non. Oltre a un certo discorso su femminilità, sessualità e tutto quel che ne consegue. Ma se il film del 1973, senza per questo azzardare paragoni insostenibili, interpretava il confronto tra fede e scienza nei termini di un progressivo scivolamento da una concezione razionale e un po’ algida del male (la malattia mentale) all’esplorazione di un orrore sconfinato e inspiegabile. E intravedeva, nella possessione della protagonista, la liberazione di una sessualità scandalosa agli occhi del patriarcato bacchettone, di qui l’esorcismo come liberazione di un’anima e ritorno all’ordine grazie all’intervento del padre assente, Gli occhi del diavolo ribalta l’assunto.
Non solo liberando potenziale femminile da entrambi i lati della barricata, la donna come vittima della possessione e insieme ancora di salvezza. Soprattutto, raccontando la forza di una femminilità che, per quanto oppressa da un nemico misterioso e dai suoi loschi fini, alla fine emerge e trionfa, riappropriandosi dei suoi spazi. L’esorcismo come doppio scacco matto alla tradizione; dalle donne e per le donne. Horror femminile più che femminista, il richiamo a rientrare nei ranghi, sussurrato all’orecchio della protagonista da un film spaventato dalle sue stesse promesse di libertà, suona pericolosamente ambiguo. Horror moderno in cerca di un ragionevole compromesso tra scienza e irrazionale. Fallisce, sotto il peso di una considerevole confusione tematica e di una maledetta superficialità.
Per una storia di possessione, la perdita del controllo finisce per rappresentare non soltanto la madre di tutte le ossessioni dei personaggi, ma anche il limite numero uno del film. Questo per Gli occhi del diavolo è un problema. E se il senso di inquietudine alimentato dal racconto è solido, imperniato su shock repentini ed effetti abbastanza disgustosi, la recitazione è imbrigliata da psicologie e caratterizzazioni troppo convenzionali. Comunque convicente la protagonista Jacqueline Byers, che intreccia tenerezza, empatia e ambizione con una certa agilità.
Ambizioni tematiche, tante, per lo più irrisolte. Manca la forza di uno sguardo anche solo di moderata originalità, persino la riflessione su femminilità e dintorni sa di già visto. Gli occhi del diavolo è una proposta horror che si accontenta della superficie delle cose. Vale, l’amarognola constatazione, soprattutto se riferita all’intuizione narrativa, abbastanza felice tenuto conto dei limiti dell’operazione, di risolvere la partita tra fede e scienza con un ragionevole compromesso. Raccontare una storia di possessione travestendola da procedurale medico standard. Una soluzione interessante, anche qui si va poco oltre la premessa.