Gli spietati: recensione del capolavoro western di Clint Eastwood
Recensione de Gli Spietati, diretto da Clint Eastwood, il western-revisionista nella sua accezione più profonda, quella dell'eroe crepuscolare impersonificato dallo stesso Eastwood, una lettera d'amore al cinema di Sergio Leone.
Il cinema western, consacrato da maestri come John Ford e Howard Hawks, per poi essere rivalorizzato negli anni da registi come Sergio Leone e Sam Peckinpah e reinventato da rielaboratori di immaginari come Robert Altman e Arthur Penn, è un genere che è andato via via ad affievolirsi – a partire dagli anni Settanta, con il fiorire del cinema poliziesco – sino a svanire (quasi) del tutto tra gli anni Ottanta e Novanta. È proprio in quel periodo che si inserisce quello che potremmo quasi definire l’ultimo grande western americano, quel Gli spietati (1992), diretto e interpretato da Clint Eastwood, che con 4 Oscar vinti tra cui Miglior film e Miglior regia, a fronte di 9 nomination agli Oscar 1993 han permesso all’ex-Uomo senza nome della Trilogia del dollaro del sopracitato Leone, di consacrarsi come uno dei più grandi registi (western) della sua generazione.
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Clint Eastwood infatti, memore della lezione impartitagli da Sergio Leone, e incapace d’accettare che dopo l’addio alle scene di John Ford i western americani prodotti non fossero all’altezza dei precedenti o troppo fortemente revisionisti – decide di mettersi dietro la macchina da presa dopo il mediocre Impiccalo più in alto (1968) di Ted Post. Eastwood si fa denotare da subito per la riproposizione di strutture narrative classiche attraverso però un’estetica contemporanea Leoniana, prendendo così il testimone naturale dell’epica western Fordiana, e che nel primo periodo troverà il massimo splendore ne Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976) il cui Josey Wales ricorda in parte il William Munny de Gli spietati.
Gli spietati porta in scena la rinascita del sopracitato William Munny (interpretato da Clint Eastwood) dopo esser stato assoldato da Kid (interpretato da Jaimz Voolvett) – memore della sua fama di fuorilegge sanguinario – per riscuotere la ricompensa posta da alcune prostitute del Wyoming, capeggiate da Strawberry Alice (interpretata da Frances Fisher), dopo che una di loro, Dalilah (interpretata da Anna Thomson) viene sfregiata con il coltello da un cliente durante un amplesso. Ma non sarà facile per Munny e Kid la missione, la cittadina di Big Whiskey infatti, è gestita dallo Sceriffo Little Bill Daggett (interpretato da Gene Hackman) un uomo affascinante dalle maniere tutt’altro per cordiali; ecco perché Munny chiederà aiuto al suo ex-socio Ned Logan (interpretato da Morgan Freeman) per raggiungere l’obiettivo.
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Un cast di primo livello su cui campeggia fra tutti Gene Hackman, che dividendosi opportunamente la scena con Clint Eastwood, tira fuori una performance indimenticabile tanto da venire premiata agli Oscar 1993 nella categoria Miglior attore non protagonista.
Gli spietati: il Munny di Eastwood icona del tramonto di genere
È proprio il ruolo di Munny la chiave di lettura principale de Gli spietati. La scelta di imperniare la narrazione su di un antieroe crepuscolare, un ex-fuorilegge in pensione, padre di famiglia premuroso e in lutto per la morte della moglie pronto a tornare “in servizio” per una nobile intenzione, rappresenta appieno il tono alla base della pellicola di Eastwood. Munny infatti, oltre a essere l’ultimo grande cowboy del cinema americano, rappresenta il culmine non solo della rifioritura del cinema di genere operata da Eastwood a partire da Lo straniero senza nome (1973) – thriller d’ambientazione western – e proseguita con quel gioiello de Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), ma anche il tramonto di un genere ormai fuori tempo, che per decadi si è erto a pilastro del cinema d’intrattenimento americano, e che ne Gli spietati trova la sua degna chiusura.
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La fine di un genere sottolineata non solo da precise scelte narrative, ma anche dalla scelta d’ambienti per una fotografia buia e ombrosa negli ambienti chiusi – dove le luci diegetiche fanno da padrone conferendo alla pellicola un sapore d’altri tempi – e naturale negli ambienti aperti, dove la scelta di aprire e chiudere la narrazione con un’alba e un tramonto, rimarca l’anima crepuscolare della pellicola.
Gli spietati: la ricostruzione dell’antieroe William Munny
La sceneggiatura alla base de Gli spietati procede gradualmente delineando da subito un intreccio solido, il cui dipanarsi prevede una struttura con due archi narrativi principali: quelli del William Munny di Eastwood e dello Sceriffo “Little Bill” Daggett di Hackman; a cui si legano indissolubilmente quelli di Strawberry Alice della Fisher e Ned Logan di Freeman, quest’ultimi “aiutanti”, essenziali e funzionali per l’intreccio graduale degli archi narrativi Munny e di Daggett. Alla base di tutto c’è l’arco della sopracitata Strawberry Alice rappresentante l’espediente, la pietra narrativa alla base dell’intreccio.
In tal senso è esemplare la ricostruzione dell’antieroe Munny da semplice allevatore di porci e padre di famiglia, sottolineato in sceneggiatura attraverso piccoli passaggi, come Munny che nelle prime battute è incapace di prendere la mira con la pistola o di salire a cavallo, o con la pistola che si inceppa al momento del primo turning point, prediligendo così l’aspetto umano del personaggio di Eastwood, e il suo lento riacquistare la propria dimensione scenica “Leoniana” nel terzo atto.
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Per un espediente che, grazie a una regia minuziosa e sapiente fatta di campi lunghi per valorizzare i paesaggi incontaminati del Wyoming, e di piani medi, primi e primissimi piani per esaltare appieno i volti dei suoi magnifici interpreti – di un genere di cui Eastwood è profondo conoscitore – permette di collocare Gli spietati nel filone revisionista seppur di chiaro stampo classico. A partire dalla sopracitata pietra narrativa alla base del conflitto, una donna sfregiata e un premio per chi la vendicherà, un anti-eroe in rinascita, degli alleati improbabili, una prostituta in cerca di riscatto e di una propria dignità, e per antagonista uno Sceriffo spietato con cui è difficile non simpatizzare.
Gli spietati: la lettera d’amore a Sergio e Don per un capolavoro da Oscar
Si chiude con un nostalgico tramonto sui titoli di coda e una dedica Gli spietati di Clint Eastwood. Per il regista statunitense infatti, la pellicola vincitore dell’Oscar al Miglior film – il terzo western ad ottenere questo onore dopo I pioneri del west (1931), diretto da Wesley Ruggles, e Balla coi lupi (1990), diretto da Kevin Costner – è più di una semplice “voler ridare” al genere western che tanto ha inciso nella sua carriera televisiva e cinematografica, piuttosto una lettera d’amore ai propri maestri scomparsi durante la pre-produzione e lavorazione della pellicola (Leone nel 1989, Siegel nel 1991). Gli spietati diventa quindi la chiusa perfetta di un genere che oggi il cinema hollywoodiano tenta di riportare in auge con pellicole come L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007) di Andrew Dominik, e Hostiles (2017) di Scott Cooper e la consacrazione di Eastwood come grande regista di genere, e quale opportunità migliore se non mettendo la firma sull’ultimo grande western americano.