Godland – Nella terra di Dio: recensione del film di Hlynur Pàlmason

Il prete Lucas viene mandato in una spedizione civilizzatrice in Islanda

Godland nella terra di Dio è un film di Hlynur Pàlmason presentato a Cannes e distribuito in sala a dicembre 2022.
Sul finire dell’Ottocento, l’Islanda è sotto il controllo danese. Al prete Lucas viene assegnato l’incarico di recarsi sull’isola, documentare con delle foto la vita degli abitanti locali e costruire una chiesa. Ma tra mari ostili e lunghi pellegrinaggi le condizioni sul suolo islandese si rivelano proibitive, e l’atmosfera inospitale. Ben presto la spedizione, composta tra gli altri dalla guida Ragnar con cui Lucas entra subito in conflitto, perde pezzi e speranza.

Cosa racconta Godland? Dalla fotografia alla volontà d’immortalità

La foto, il cinema, la riproduzione artistica insomma, devono venire a patti con la  loro essenza teoretica ovvero quella di essere insieme allo stesso tempo e con la stessa materia simbolo e metafora della volontà umana dell’immortalità, raggiunta attraverso l’imbalsamazione del tempo, la su cristallizzazione, la sua permanenza eterna su supporto riproducibile.
Godland parte da qui: dal (presunto) ritrovamento in una scatola di legno delle prime fotografie in collodio (sette, per l’esattezza, probabilmente le prime foto della costa sud-orientale.
Fu nel 1851 che Frederich Scott Archer sperimentò per la prima volta la fotografia al collodio umido, perché prima di lui la fotografia veniva utilizzata con la tecnica dell’albumina e prima ancora, nel 1840, con la dagherrotipia.

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Il collodio umido permette, tra tutti, una straordinaria qualità d’immagine e dei tempi di esposizione molto contenuti, nell’ordine dei 3-20 secondi: un lasso di tempo in cui ciò che deve essere riprodotto deve restare immobile, la sua vita si deve fermare, perché la foto -il cinema- possa catturare la sua essenza più intima, fantasmatica, senza possibilità però che questa possa essere riprodotta, nel tentativo vano di restituire tracce di realtà. Di verità. Di vita.

Duelli interiori in panorami sontuosi

È su questi presupposti che Pàlmason restituisce un’opera sontuosa, che ha il respiro del capolavoro bergmaniano che vola insieme alle vele agitate dal vento sulla nave, con tutti i personaggi che sfilano davanti l’obiettivo come fantasmi, ombre materiche. Arrivando fino a costruire un paesaggio così vasto, immenso, illimitato e quindi omnicomprensivo di ogni dettaglio, ogni respiro, ogni movimento, da avere un’atmosfera pesante, opprimente, compressa dai margini dell’inquadratura e dalla soffocante solitudine che avvolge come in un sudario il protagonista, il prete luterano inviato in Islanda per supervisionare la costruzione di una nuova parrocchia.

Pàlmason firma un capolavoro assoluto che è un film sul linguaggio, e quindi sul cinema, ambientando la sua storia in un tempo quando il cinema neanche esisteva. Ma è anche inevitabilmente un film sull’identità e sull’impossibilità di aderire alla propria, costruito sottilmente ma in maniera potentemente evocativa su un conflitto silente e immanente.

Dalla lingua alla materia

Un duello prima di tutto tra la volontà identitaria e l’impossibilità di metterla in pratica in maniera compiuta e sensata; ma anche poi su tutte le endiadi che si propongono strada facendo.

Tra i titoli, partendo dalla sommità: tra quel Godland che è terra di Dio all’islandese Volaða Land e il danese Vanskabte Land, che invece si traducono con terra malformata. E scendendo via via nella trama, con la lotta alla civilizzazione di Lucas, quella colonizzazione dimenticata dalla storia e dalla narrativa che la Danimarca tentò sull’Islanda; arrivando a quella metafora sempre utile sulla civiltà che uccide ma ipocritamente tenta di celare allo sguardo l’atto stesso della violenza.

È allora seguendo questa declinazione che Lucas diventa ancora più centrale nella trama, perché lui è l’uomo che immortala ciò che è mortale e decomponibile con la macchina fotografica; ed è sempre aderendo a questa visione che lo sguardo di Pàlmason si spinge fino a riprendere la decomposizione di un cavallo e di un uomo.

Godland sa essere teorico senza pesare sulla didascalia, aggirandosi tra tesi e antitesi in una storia che sa riflettere sulla molteplicità dell’esperienza sensibile di “questo disgraziato, patetico gregge di uomini soli”.

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 4
Emozione - 5

4.8