Gomorra: recensione del film di Matteo Garrone
Truman Capote un giorno affermò a sangue freddo: “il fiume della saggistica e il fiume della narrativa dormiranno finalmente un giorno nello stesso letto” ed è ciò che ha segnato lo scorrere predominante della sua letteratura, la non fiction novel come si è abituati a definirla. Roberto Saviano con il suo stile maestoso ha cambiato per sempre la storia della letteratura italiana. Eppure Gomorra, di gran lunga la sua perla nera, ha un potenziale contraddittorio che può essere liberamente esplicato nelle parole di Stanley Kauffmann: “di questo libro si può dire che contiene sufficiente verità da rendere giustificato il commento, questa non è letteratura, è giornalismo”.
Con Gomorra Garrone decide di prendere lo spettatore dalla stomaco alla gola, raccontando una terra campana che urla più di chi ci cammina sopra
La pellicola di Matteo Garrone (2008) è partorita da due forze uguali e contrarie che schiacciano un po’ questo flusso letterario. La prima è la predominanza dell’io, inabissata e messa da parte anche per giuste necessità filmiche, la seconda è il sapore dell’inchiesta che viene addolcito e ingioiellato compromettendo la substantia che governava il romanzo.
Il film è come la prova generale prima di uno spettacolo, si è osato fare qualcosa che somigliasse ad un romanzo ma che se ne distanziasse per trovare i giusti risvolti nelle affinità elettive: alla pellicola viene concesso di rappresentarsi e di scegliere verso che direzione andare liberamente, cosicché fosse più spontaneo il distaccamento emotivo verso lo scritto di origine ed ottenere nuova forma e forse anche un nuovo senso, visivo.
L’orrore parte dal basso, dal piccolo. Mostra con che facilità e con quale costrizione si può entrare nel sistema. Necessità di tipo economico, di tipo ambientale, anche sentimentale. Il film è governato da un senso di rivalsa negativa, ogni personaggio vuole migliorarsi, pretende un ammodernamento della propria vita e per farlo subisce le leggi della camorra, gerarchizzata e a senso unico.
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V’ l’avita accattà la vita vostra, ij non v’ a regalo la vita vostra.
La demoniaca affermazione di un despota del clan di lauro in eterna faida contro gli scissionisti, ad un loro contabile don Ciro (Gianfelice Imparato), che si scontra con una realtà più grande e troppo tempestosa da poter permettere di pensare a mente lucida.
La storia si biforca, procede con picchi e livellamenti, poiché Garrone per quanto mestamente non si lasci andare a sentimentalismi, decide di prendere lo spettatore dalla stomaco alla gola, e lo fa con primi piani stupefacenti e con i rumori del suolo, la terra campana urla più di chi ci cammina sopra.
Il risultato finale è una sestina ben articolata. Sei stanze occupate da personaggi così credibili da sentirne il fiato sul collo.
Roberto (Carmine Paternoster) è il prezzo che l’Italia paga per il dissipare delle sue menti, un giovane laureato che viene a contatto tramite conoscenze, naturalmente deleterie, dello smaltimento dei rifiuti e di come colpisce nel vivo la politica, la natura e ovviamente le vite dei residenti. Oltretutto gli stessi dementi che andranno poi a costruirci su palazzoni stile Scarface. Per la serie re della spazzatura, ma pur sempre un re.
Franco (Toni Servillo), un imprenditore geniale nella sua precarietà mentale, resta un personaggio determinante poiché mostra come la visione marxista, un po’ oltraggiata nel suo contenuto capitalistico, comunichi un senso di disarmante uguaglianza e che lo svincolarsi da un sistema maledetto non produca che il suo innalzamento, non la sua distruzione. Insomma Franco non crede che combattere il male generi il bene, non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco.
Pasquale (Salvatore Cantalupo) forse unico personaggio insinuato nel sistema che percepisce ancora la differenza tra lavoro come istituzione e apprendimento e la sua mercificazione, non riesce ad andare oltre, se non oltre la sua vita, poiché combattere è un istinto di morte non di sopravvivenza, e come tale va messo da parte.
E infine l’inquadratura si ferma su tre persone, tre ragazzi, uno più giovane dell’altro, per dimostrare per così dire che per tante persone magari non si può decidere che destino si possa avere, poiché la storia, le sue conseguenze, le circostanze a volte sono inevitabili e rovinose. Ma si può decidere ancora prima che sia il fato a dettar legge di come misurare la gittata delle proprie decisioni, di come educare a combattere e non a sottomettere è possibile, di come anche a Scampia si può trovare scampo, di come da un quartiere letamaio può e deve nascere il fiore della resistenza.
L’iniziazione non ha termini di utilizzo, non ha geografie o età che ne determini l’estraniamento. Chiunque voglia diventare un uomo vero deve sottomettersi a loro e alle loro prove di coraggio.
Insomma Totò, Marco e Ciro sono i figli di chi non ha agito, sono i figli di Pasquale, don Ciro e Franco. Marco e Ciro, una pistola in mano e il sogno di Tony Montana nel cuore, aspirazioni migliori non ne immaginano neppure, perché la cosa più destabilizzante è di come ignorino una vita diversa da Gomorra, non esiste lavoro che non porti soldi nelle casse della camorra, non esiste una vita che valga la pena di essere vissuta se non nelle trame di Scarface. Perché rimanerne fuori?
Si crede stupidamente che un atto criminale per qualche ragione debba essere maggiormente pensato e voluto rispetto ad un atto innocuo. In realtà non c’è differenza. I gesti conoscono un’elasticità che i giudizi etici ignorano.
L’errore di chi guarda questo film non sta nella visione marginale ma in quella universale. Ciò che la pellicola urla tra i fotogrammi è: noi non siamo migliori o peggiori di chiunque tu possa incontrare nella tua vita, ma avremmo potuto essere diversi, se avessimo scelto o capito la differenza tra debolezza e crimine. Sfortuna, infelicità, fragilità, insofferenza hanno un potere decisionale forte e se collocate nelle giuste parti del mondo arrecano una dislocazione di valori e l’implicita non scelta di perseguire strade che non hanno alternative visibili.
La domanda conclusiva che ci poniamo ogni qualvolta veniamo a contatto con chi coglie quella differenza e prende la strada più facile contromano è: quanti saprebbero fare la stessa cosa? Quanti riescono a dire a voce alta, io l’ho fatto! Quanto talento, quanto coraggio ci vuole per togliersi la maschera che rende silenziosi e uguale agli altri? Così da riscrivere attraverso i lineamenti che ha la propria voce il destino del paese. Una scelta personale che contribuisce ad un bene infinitamente più grande.
Questo è il senso di chi fa questa scelta, ma non è una scelta autoreferenziale, non si sceglie il bene come archetipo, come etere, come eroico furore.
Questa pellicola, lo stesso libro sembra chiederti altro. Sembra dirti, non lasciarmi solo. Rispettami. Sembra bisbigliare, perché non si può dire ad alta voce: amami quando lo merito meno, perché sarà quando ne avrò più bisogno.