Grand Tour: recensione del film di Miguel Gomes
Premiato come miglior regia al Festival di Cannes 77, Grand Tour è il grande viaggio tra realismo e finzione di Miguel Gomes. Al cinema dal 5 dicembre 2024.
Grand Tour. Quando a dirigere c’è Miguel Gomes il procedimento critico va da sé; nessuna struttura premeditata nella scrittura ma solo viscerali impressioni ricavate dall’osservazione della realtà legata al manifesto immaginario del regista.
Grand Tour: il divismo cinematografico di Miguel Gomes
Documentario e cinema, due entità diverse che confluiscono in una dichiarazione ufficiale degna di pergamena e cera lacca; Miguel Gomes importa l’impalcatura cinematografica nei tasselli sotterranei della teatralità in movimento. Una teatralità rara che allaccia i vezzi di un particolare “divismo” e le necessità riflessive all’interno di un contesto che sfiora la filosofia e attraversa l’ossatura della gestualità linguistica. Commistione tra palcoscenico e schermo dalla rarità eccezionale, che avanza invertendo i ruoli di un’orchestra nella messa in scena di un’opera lirica.
La reinvenzione del cinema neorealista
Neorealismo presente, assettato e imbastito in una regia a volte ostile e a volte disincantata! Miguel Gomes è eterna agitazione, lineare però nei suoi dubbi senza dare troppe spiegazioni; un’anima introversa per genialità! Trascina a sé un unico elemento, imprescindibile: l’opacità, effetto sfocatura, che non traumatizza mai la trama, piuttosto la orienta verso una scelta libera – mai lineare – di un personale processo creativo che coinvolge in modo istantaneo, immediato chi assiste.
Tra illusione e “vecchio” garbo, Grand Tour evoca una continua “discromia” tra passato, presente e post-moderno: due tempi in uno, un tempo in più di due. Una stessa pelle. Tutto perfetto e invece non lo è! Non c’è perfezione; la storia narra di due sposi novelli, un sacerdote, un Innominato e un periodo storico ingrato e Gomes procede silenziando, abbassando, sbiadendo ogni cosa che possa accentuare un personaggio, la sua intimità, il suo vissuto facendo sempre emergere quell’incertezza realistica alla ricerca di espressioni impersonali.
Fissità storiche e trame scomposte
Non c’è una cronologia, non ci sono date che possano associarsi a un determinato momento eppure tutto documenta un preciso periodo storico; Grand Tour non risente di alcuna “fissità” temporale, semplicemente si realizza, si concretizza e cresce nella sua struttura aperta e irrisolta. Nell’intreccio, combinazioni, eventualità, affermazioni. A volte anche i dialoghi riprendono il volto assurdo della realtà perché ciò che appare assurdo non è distante da noi ma convive nel nido/terra di innumerevoli esseri, umani, disumani, goffi, colpevoli, assassini.
Ma cosa poteva essere la Birmania nel 1700 nelle speranze di Edward e Molly, che in questo Grand Tour asiatico diventano “viaggiatori del tempo “nella bellezza e la osservano da più punti di vista, riflettendola, duplicandola, dilatandola? Sentimenti malinconici, che Gomes benedice alzando i toni, la musica, soffermandosi e perdendosi a volte in modo eccessivo nelle immagini che mutano gli stati d’animo e invertono le emozioni.
E quindi cos’è Grand Tour: mille cose e altre ancora. Come lo è stata la trilogia delle Mille e una notte (2015). Come lo è tutto il cinema del regista portoghese. Una storia d’amore? Certamente. Un thriller? Anche. Un drammatico pasoliniano in cui incorre la visione degli emergenti della Nouvelle Vague? Può essere anche questo.
Grand Tour è…
Grand Tour è la rappresentazione manieristica di un cinema in movimento, visionario nelle sue semplici aspirazioni. Un cinema che bacchetta la situazione sociale senza averne piena coscienza e senza volerlo fare. Miguel Gomes è tra i riferimenti contemporaneo della “finzione documentaristica”.
Grand Tour è estetica che attraversa l’urbanistica storica. Si! Anche. L’attenzione per i dettagli è la mappa di un film così complesso. Si lavora per geografie e mappature. Edward e Molly sono la rappresentazione di una condizione storico-fisica; sono, esattamente, il tipo di persone che immagineremmo nel ‘700, cappotti, cappelli, consumati dal freddo, intiepiditi dai lumi di bische, di chiese o dipartimenti. Tutto ridotto in una cartina che non sgrana oltre i 16mm ma si inserisce dentro.
Grand Tour è la gloria di Miguel Gomes, anche se il regista dichiara di non esserne particolarmente affezionato, di non esser realmente riuscito a catturare ciò che l’occhio/pensiero nudo ha visto, a riproporne la sua bellezza. Eppure… questo film è bellissimo!
Grand Tour: valutazione e conclusione
*Critica y analisi. Disturbiamo Gilles Deleuze, solo come punto di partenza nella parte più tecnica. “Il delirio è l’unica apparenza sensitiva che sia in grado di mostrarci la passionalità per qualcosa”. Nel caso del filosofo si esprime con la scrittura che traduce il pensiero, smascherando in sillabe pause e accenti il processo mentale. Nel caso di Gomes la sperimentazione visiva avviene attraverso la costruzione di una “storia” che non ha una sua soluzione ma che induce all’esplorazione degli altri in se stessa.
Grand Tour è quindi una storia di amore, un thriller, un drammatico ma è soprattutto il “soppalco immaginativo” di una ricerca mai fine a se stessa. Da bravi scolari la sceneggiatura è lievita di manifestazioni linguistiche complesse addolcite da una scenografia che, perché in bianco e nero, assolutizza la richiesta di non avere pretese e di non ricercare intenzioni… quanto meno registiche. Pretenderlo spezzerebbe l’incanto del cinema sperimentale, l’incanto dell’indipendenza artistica che rimembra una storia cinematografica possente ed eurocentrica. Dai vizi “viscontini”, i ribaltamenti parigini, le metafore sovietiche l’analisi si completa con un’affermazione precisa: Grand Tour è l’erede di filmografie divergenti, rivoluzionarie, acute; Miloš Forman nell’estetica, Alejandro Jodorowsky nei concetti, Miguel Gomes nella mente esecutiva.
Grand Tour di Miguel Gomes è stato presentato al 77° Festival di Cannes, premiato come miglior regia, distribuito da Lucky Red è in sala dal 5 dicembre 2024.