Greyhound – Il nemico invisibile: recensione del film con Tom Hanks
Tom Hanks guida un convoglio di navi attraverso l'Atlantico. Una storia vera in un racconto che non riesce ad emozionare. Il film di guerra più atteso dell'anno si rivela essere un buco nell'acqua.
Con Tom Hanks al timone si può dormire sereni. Ma al comando di Greyhound c’è Aaron Schneider e tanto basta per perdere il sonno. Nel film di guerra disponibile dal 10 luglio su AppleTV+, il regista statunitense tenta la via del film Classico, ma gli riesce solo un film vecchio. Affogato in una CGI mai convincente, Greyhound galleggia sugli sguardi di Hanks. Dai campi lunghi sulle onde di un mare di pixel lo spettatore scamperà coi primi piani dell’attore. Divisa da comandante, sguardo all’orizzonte e croce in tasca. È solo l’ultima versione di un personaggio che Hanks ama interpretare: l’eroe di guerra. Giusto, religioso, capace di decidere. Il padre-guerriero a cui affidarsi in trincea. Se l’è scritta lui stesso la parte, adattando The Good Shepherd, romanzo del 1955 di Cecil Scott Forester.
Siamo nel 1942, gli alleati attraversano l’oceano per portare provviste e uomini nel vecchio continente. A introdurci questo spicchio di guerra sono le voci imponenti di Churchill e Roosevelt. Il loro voice over apre il film, come a legittimare il racconto. Ma la veridicità dei fatti non riesce a sostenere la discutibile messa in scena. Seguiamo 37 navi alleate attraverso l’Atlantico del nord. In questa zona, denominata “Black Pit”, la copertura aerea non è garantita. Le imbarcazioni viaggiano nel rischio di essere colpiti dagli U-Boot tedeschi. Sottomarini armati di siluri. In testa al convoglio troviamo la Greyhound, cacciatorpediniere comandato da Ernest Krause (Tom Hanks).
I difficili codici della guerra
Nelle parole di Roosevelt il riassunto del film: “al diavolo i siluri e avanti tutta”. In aiuto alla tensione una costruzione claustrofobica degli spazi. Il punto di vista sugli eventi coincide con la cabina di comando del cacciotorpediniere. A questa si alternano solo alcune riprese aeree. Delle altre navi, o del nemico, non sappiamo invece mai nulla. Il nemico invisibile del sottotitolo italiano. L’immedesimazione dovrebbe essere assicurata, anche da una camera a mano che segue l’andamento del mare. A straniare lo spettatore sono però linee di dialogo fedeli al gergo nautico. I comandi urlati e ripetuti dai sottoposti in plancia sono tecnici e di non facile interpretazione. Un realismo che mette in difficoltà. Comprendiamo il grado di pericolo dalla reazione dei personaggi in scena. Un lavoro di decifrazione che coincide con quello dei protagonisti. I fari delle imbarcazioni utilizzate per comunicare tramite il linguaggio morse, le luci dei radar e la decriptazione delle intercettazioni sono infatti al centro delle vicende. La guerra in mare prende le forme di un gioco interpretativo. L’errata lettura dei segnali può essere letale. Come accade al Comandante Krause nel momento in cui un pillenwarfer, diversivo utilizzato dai sottomarini, viene scambiato per un siluro da abbattere.
Greyhound affonda sotto i colpi di regia di Aaron Schneider
La sceneggiatura di Tom Hanks rivela molto presto gli scivoloni più classici del genere. Dal comandante troppo buono e privo di approfondimento – “50 crucchi in meno” riferisce un soldato, “50 anime in meno” lo redarguisce lui – a comprimari senza caratterizzazione. Al primo “abbattiamo questi figli di puttana” Greyhound toglie la maschera e si rivela un film di guerra come tanti. Ma nella retorica un barlume di originalità: al funerale in mare che introduce l’ultimo atto notiamo i cognomi di tre soldati. Pisani, Marx, Cleveland. Senza enfasi ridondante, Hanks celebra gli immigrati in USA morti in battaglia.
Dimenticabile tra gli esponenti del genere e irrilevante nella filmografia del suo protagonista, ad affondare Greyhound è la regia. Schneider esaurisce le idee nella prima mezz’ora. I cartelli che ci informano dello scorrere del tempo diventano l’unico stacco tra sequenze pressoché identiche. Con Tom Hanks obbligato a chiave di volta di immagini e dialoghi ripetuti come mantra. Sul finale scopriamo di assistere a una struttura circolare. I riti del Comandante si ripetono come in apertura. Si spoglia, prega, dorme. Abbiamo assistito a un giorno come tanti. Ma nonostante la conclusione rivelatrice, il tentativo di trasmettere la reiterazione del pericolo in una ripetizione della struttura di regia non convince. E presto stanca. Tom Hanks di suo è come sempre statuario e perfetto. Nonostante i controcampi dei suoi sguardi rivelino una CGI (nel mare e nelle navi) che impedisce ogni immedesimazione. A pesare sul risultato è anche l’assenza di una colonna sonora capace di segnare gli eventi. Nelle note di Blake Neely ritroviamo tutti i cliché del genere, tra cui la recente scuola del Dunkirk musicato da Hans Zimmer. L’insegnamento però non è passato e il complesso orchestrale non riesce a traghettare le scene più epiche.
Con un budget di 50 milioni, il film sarebbe dovuto uscire in sala. L’emergenza coronavirus ne ha però fermato la distribuzione, presa in carico poi da Apple. Nonostante il disappunto di Tom Hanks, Greyhound trova nel piccolo schermo uno spazio più opportuno.