Jennifer Lopez: Halftime: recensione del docu-film Netflix di Amanda Micheli
Dal cinquantesimo compleanno alla performance (a metà) al Super Bowl. Halftime celebra la rinascita di Jennifer Lopez, performer icona del latin-pop, ora decisa ad elevarsi nel circuito di chi conta: i premiati di Hollywood e gli artisti impegnati civilmente. Su Netflix dal 14 giugno.
E’ più un’agiografia che un vero documentario Halftime, il docu-film diretto da Amanda Micheli, su Netflix disponibile dal 14 giugno, che rincara l’offerta del marchio J. Lo dopo un periodo di (lunga) carriera passato un po’ in sordina. Il lavoro dietro il film è di puro marketing comunicativo: mostrare di Jennifer solo ciò che Jennifer ha scelto di mostrare, ovvero i faticosissimi mesi che vanno dal luglio 2019, suo cinquantesimo compleanno della “rinascita”, fino al mega evento della performance del Super Bowl del 2020, passando per la campagna di promozione del film Hustlers – Le ragazze di Wall Street, la nomination al Golden Globe, quella (amara) mancata agli Oscar e l’esecuzione canora in occasione dell’insediamento alla Casa Bianca del presidente Biden nel gennaio del 2021.
From the Block to the Super Bowl
Montato scremando a puntino spezzoni del dietro le quinte, viaggi in aereo e in macchina, prova trucco e abiti, corridoi verso studi televisivi, eventi filantropici, scambi affettuosi con i figli Max ed Emme, l’icona pop degli anni Duemila fa il giro di boa festeggiando(si) con un film che la eleva a neo paladina politically correct degli immigrati ispanici e delle donne latine born in U.S.A, rivalutando la propria immagine da procace queen from the Block a ispirazione delle giovani bambine che ascoltano la sua musica “per sentirsi meglio“.
In Halftime c’è tutto, forse troppo, proprio per questo non rimane granché: si prova ad integrare nel racconto dei mesi che scorrono non stop fra prove, riunioni e dita incrociate per la statuetta, quello che forse sarebbe dovuto essere il vero lavoro documentato, ovvero ripercorrere tramite materiale d’archivio ciò che ancora non sappiamo della Jennifer mora e acerba, appena ventenne, che voleva essere una cantante nonostante i genitori fossero convinti di doverla marchiare, fra le tre, a figlia “futura ballerina“; quella della porta di casa sbattuta a diciotto anni quando i litigi con la severa mamma Lupe (volavano anche botte a casa Lopez, ammette lei) erano insostenibili, e poi i primi lavori da danzatrice in tv e a teatro; la metro presa a New York per mantenersi indipendente; l’affermare costante di essere cantante oltre che performer, di essere attrice oltre che fidanzata di.
Halftime: Jennifer Lopez e l’adattamento nell’era del political-pop
Sempre al centro della cronaca rosa, presa di mira dalle battute dei conduttori tv, dai tabloid, perfino dai personaggi di South Park, Jennifer ammette di aver sofferto molto quando si sentiva dire di non avere un talento, di non meritarsi il successo, di non essere ammessa fra quelli che contano, ovvero i grandi di Hollywood, tanto da commuoversi quando legge una recensione che la definisce “un’attrice sottovalutata”.
Sembra dunque incensarsi di poca autostima la fragile Lopez che affiora a piacimento in un ritratto parziale e colmo di retorica: una pop-star globalmente riconosciuta per aver fatto ballare mezzo mondo con canzoni sulle relazioni turbolente (“Love don’t cost a thing“), il divertimento notturno (“Waiting for tonight“), e la seduzione sulla pista da ballo (“On The Floor“). Una cioè a cui la politica non è mai interessata (ci aveva riso su in’ intervista ripresa proprio in Halftime) ora ripresentatasi al pubblico in veste consapevole di un’America post trumpiana che non riconosce più, al corrente di vivere nell’epoca woke e di dover costantemente lanciare messaggi su messaggi.
Ora che tutto è rilevante e non basta solo muoversi a ritmo di funk, non basta essere nemmeno relegata a dolce metà del compagno più premiato e più famoso (Ben Affleck appare pochissimo, in un flash), dividere l’esibizione più importante di una vita con Shakira perché “si pensa che ci vogliano due donne latinoamericane per fare il lavoro che i bianchi svolgono soli“. Adesso il lato B di J.Lo non è più quello che pensiamo, è il risvolto autocelebrativo di una self made woman figlia del sogno americano e di uno showbiz chiamata a fare i conti col presente: usare l’arte per scopi politici anche rivedendo il passato, pena l’esclusione da un mondo, quello della pop-culture, che per anni ha fatto di tutto per tenere quelle stesse celebrità ben lontano dal discorso politico.