Hannah e le sue sorelle: recensione del film Woody Allen
“Dio, è bella…”, sì, ma è pur sempre la sorella di tua moglie!
Romantica introduzione per una sfilata di psicosi e sentimenti inappropriati firmata Woody Allen, il cineasta americano legato alle sue radici, ma dallo spirito quasi europeo che nel 1986 introdusse nell’universo cinematografico Hannah e le sue sorelle, film presentato fuori concorso al 39° Festival di Cannes. Spettro di personaggi, al suo solito, troppo umani, si troveranno questi totalmente sopraffatti dall’imprevedibilità della vita, dai suoi dubbi di natura esistenziale e da quell’ironica incoerenza che continuamente la caratterizza, spiazzati da risvolti inaspettati e descritti con occhio dolcemente cinico del grande artista.
Nella frenetica New York tanto amata e celebrata dal regista, Hannah (Mia Farrow) è l’equilibrata colonna portante di una famiglia bistrattata di artisti, sorella della sconclusionata Lee (Barbara Hershey) e della problematica Holly (Dianne Wiest), eccellente donna di casa ed attrice di grande talento, emblema di una stabilità straniante e di una perfezione al limite del sopportabile. Attorniata da personaggi bizzarri in continuo stato di tumulto emotivo e alla disperata ricerca di un senso in questa vana esistenza, vive la sua quotidianità accanto al marito Elliot (Michael Caine), irrimediabilmente innamorato di sua sorella Holly, mantenendo un ottimo rapporto di amicizia con l’ex coniuge Mickey (Allen), ipocondriaco senza speranza, tormentato da un misterioso, lievissimo, problema all’orecchio.
Hannah e le sue sorelle – personaggi disastrati tra sentimento e disincanto
Disincantato quanto sentimentale, tragicamente farsesco nella sua brillante visione dei legami e delle necessità, film di riflessione per chi però alla testa segue comunque l’istinto, la casualità dell’amore cantato dai poeti e forse a ragione considerato da loro la cosa più importante, voci fuoricampo che si interrogano su eventi ed emozioni che di netto vengono interrotti da sfondi neri e frasi a racchiudere il susseguirsi delle situazioni. Il demiurgo Allen è autore di personaggi disastrati, di quelle donne nevrotiche che non possono far altro se non stravolgere la vita degli uomini, di quegli uomini che non possono far altro se non sdilinquirsi per donne inadeguate, ognuno teso come le corde con cui ha filato le reti delle proprie complicazioni. Due storie ad intrecciarsi, le relazioni familiari tra sorelle ed amanti fanno da contrapposto drammatico all’ingestibile ipocondria del timorato Mickey, spassosamente interpretato da un Woody Allen che riesce a passare da una semplice emicrania ad una malattia mortale in pochi secondi, allarmismo abituale che sfocia nel bisogno superiore di un Dio che tutto può. Su un’altalena spinta dai sensi di colpa, dalla paura di svanire e dal sincero affetto che lega tutti i famigliari, è Hannah il punto fisso su cui fare affidamento, pacata e calma, di uno stoicismo non privo di emotività, che si prefigura rifugio sicuro sotto il quale ripararsi.
Alone sempre intellettuale pur nell’analisi di quel muscolo tanto elastico che è il cuore, tra Bach in Fa minore, libri di poesie, opera e dipinti, Allen registra uno dei suoi più grandi successi al botteghino, apprezzato da pubblico e critica, aggiudicandosi tre dei sette Premi Oscar a cui era stato nominato, premiando come migliori attori non protagonisti Michael Caine e Dianne Wiest e una sceneggiatura originale fra il divertente e il disastroso. Immancabile, la musica jazz che apre il film e accompagna con le sue note i combattuti personaggi nella grande metropoli, luogo di pulsioni che nascono e si consumano nel giro di qualche festività. E così il cerchio si chiude allo stesso modo in cui si è aperto, a casa, in famiglia, persone trasformate, ma in fondo sempre uguali, con i loro timori, le loro aspettative e i loro desideri.