Hell Fest: recensione del film horror di Gregory Plotkin
Diretto dal montatore di Get Out, Gregory Plotkin, Hell Fest è il tipico horror stagionale non certo destinato a restare nella Storia del cinema.
Se a Natale non può mancare il lungometraggio animato da guardare in famiglia, ad Halloween è d’obbligo sedersi in sala e godersi l’offerta horror che propone il mercato, anno dopo anno. Questo ottobre 2018 non fa eccezione e ci presenta diverse possibilità, tra cui Hell Fest di Gregory Plotkin.
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Hell Fest: un horror ingenuo e sincero
Ingenuo. Sincero. Certo non due aggettivi che provocano terrore. Eppure, la mano di Gregory Plotkin – montatore del caso dell’anno scorso, Get Out – è quella di un fan dei film di genere, che si cimenta nella storia senza porsi troppe domande. Il suo approccio acritico al cinema dell’orrore lo porta a commettere una serie di errori di superficialità, sorvolando con anche troppa leggerezza sui buchi di trama e la scarsa verosimiglianza di personaggi e situazioni. Entusiasta di un concept di base che potrebbe avere anche un discreto potenziale, Plotkin indugia nei cliché del genere, seguendo in maniera pedissequa e scolastica tutte le regole e infrangendo quella principale che dovrebbe, invece, tenere a mente ogni artista: il rinnovamento.
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Questo concept di base, semplice ed efficace, coinvolge il tema visivo-narrativo del parco divertimenti Grand Guignol. La storia si svolge, infatti, durante la notte di Halloween, momento in cui sei giovani amici (di quell’età indefinita subito dopo l’adolescenza, ma ben lontana dalla fase adulta) decidono di trascorrere insieme la serata nell’attrazione itinerante dell’Hell Fest. Il parco prevede una serie di giochi, uno più terrificante dell’altro, fino a quello finale agognato da tutti (o quasi) come non-plus-ultra del raccapriccio – e per questo assolutamente imperdibile. Il problema nasce quando un maniaco omicida si confonde tra la folla e approfitta dall’orrore simulato per dare sfogo ai suoi istinti di morte, sangue e tortura.
Hell Fest: il trucco è l’immedesimazione
Di base Hell Fest propone una situazione in cui è facile immedesimarsi, dato il crescente interesse che riscuote il fenomeno dei parchi e degli show tematici. Il film risponde alla domanda che ci si pone naturalmente in questi contesti: e se non tutto fosse finto?
Il regista va dunque a solleticare quella zona grigia in cui ci andiamo a mettere quando ricerchiamo l’orrore, ma vogliamo essere rassicurati sulla nostra incolumità. Rompendo la sottile membrana tra violenza osservata e violenza subita, il film innesca un efficace meccanismo di immedesimazione del pubblico: verosimilmente, chi trascorrerà la notte del 31 (o delle serate successive) davanti a una pellicola che parla di tardo-adolescenti smembrati è affascinato dal tema e non si perderebbe l’opportunità di visitare l’Hell Fest, qualora il carrozzone arrivasse nella sua città. La sovrapposizione tra pubblico e personaggi è dunque evidente: quand’è, allora, che iniziamo a distaccarci dai protagonisti (e dalla storia)?
Hell Fest: si scrive vintage, si legge banale
Gli sceneggiatori William Penick, Christopher Sey e Stephen Susco delineano dei personaggi assolutamente stereotipati, sia nei profili caratteriali, sia nel rapporto con l’assassino. Analogamente, il voler sfruttare le (impressionanti) scenografie del parco divertimenti, porta la scrittura ad adattarsi ai classici meccanismi – che non brillano particolarmente per logica – dell’horror e mette i ragazzi in situazioni altamente improbabili, spazzando via ogni possibilità di mimesis.
Abbiamo a che fare con tutti i soliti ruoli, così ben sviscerati (letteralmente) da Drew Goddard e Joss Whedon in Quella casa nel bosco: ci sono la vergine (la protagonista Natalie interpretata da Amy Forsith), l’amica disinibita (Brooke – Reign Edwards), l’atleta (Quinn – Christiane James), i buffoni (Bex – Taylor-Klaus e Asher – Matt Mercurio) e l’innamorato (Gavin – Roby Attal). A questi si aggiunge una piacevole guest star, Tony Todd, attore dalla fisicità importante (è alto due metri) diventato una presenza cult del cinema di genere dopo la sua interpretazione di Candyman (1992).
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La vergine, la disinibita, i buffoni, l’atleta, l’innamorato vanno bighellonando nel parco e mettono presto in scena il loro personale show in cui le relazioni si intrecciano e si sviluppano in maniera prevedibile: c’è la coppia cool, quella dolce e inesperta, quella fuori di testa, tutte ugualmente insopportabili, tutte che si sforzano di entrare in empatia col pubblico senza grandi risultati. A infrangere l’equilibrio in questo variegato gruppo di amici ci pensa (per fortuna) uno spostato in cerca di vittime. Armato alla bell’e meglio, il killer mascherato (a cui dà corpo lo stuntman Steve Conroy) punta la comitiva e decide di massacrarli, uno ad uno.
Non percepiamo effettivamente il motivo per cui quest’uomo decide di far fuori dei ragazzini sconosciuti, se non in una scena in cui si evince una certa perversione nell’atto di mascherarsi. Finita una rapidissima (e probabilmente superflua) analisi psicologica del perché, possiamo concentrarci sul come: ecco che ci risvegliamo dal torpore del già visto e ci lasciamo convincere dagli effetti speciali che rendono le scene splatter piuttosto godibili e veritiere.
L’estetica generale del film è – per così dire – piuttosto vintage. Il killer ricorda in un certo qual modo i grandi assassini del cinema anni Settanta, Ottanta e Novanta. Da Leatherface a Freddie Krueger, da Jason a Michael Myers, il nostro “sconosciuto” ha un gran tradizione a cui rifarsi: sarà ancora in tempo o ormai il genere ha cambiato linguaggio?
Hell Fest è al cinema dal 31 ottobre 2018, distribuito da Notorious Pictures.