Berlinale 2020 – High Ground: recensione del film
La recensione di High Ground, il film presentato alla Berlinale 2020, diretto da Stephen Johnson con Simon Baker nel cast.
Non tutti i film devono essere visti attraverso la lente della contemporaneità ma, visto la scelta del governo australiano di finanziare High Ground, qualcuno potrebbe pensare che si voglia far passare ancora una volta il messaggio che “un altro bianco è il salvatore”. In un primo momento sembra di stare guardando il sequel di Australia con Nicole Kidman e Hugh Jackman, poi qualcosa stona e si prova a capire il vero intento del regista e dello sceneggiatore.
Travis (Simon Baker) è un poliziotto che lavora nel Territorio del Nord Australia nel 1919. Una caccia all’uomo finisce con un sanguinoso massacro di una tribù di aborigeni locali, portando Travis a ricercare una vita tranquilla, che per gli standard locali prevede la caccia ai coccodrilli. Anni dopo, Travis è costretto a condurre un’altra caccia all’uomo quando Baywara (Sean Mununggur), un sopravvissuto al massacro, inizia ad attaccare le fattorie locali. Travis parte, accompagnato dal giovane Gutjuk (Jacob Junior Nayinggul), che è sopravvissuto al massacro da bambino e ha un piano di vendetta.
L’Australia rurale dell’inizio del XX secolo era simile al selvaggio West, e il film, girato principalmente nella zona di Arnhem Land del Territorio del Nord, evoca brillantemente la pericolosa bellezza del paesaggio. Visivamente sorprendente, e con le ossa di un film eccellente, High Ground però in parte delude per la sceneggiatura poco originale e la narrativa mediocre, appesantita e ripetitiva. Ne abbiamo già viste di avventure romanzate tra polvere, sangue e duelli per onore e risentimento. High Ground è un western australiano ispirato a fatti realmente accaduti, storicamente accurato e con un buon ritmo sostenuto, ma se ci si ferma un attimo a pensare si realizza che non c’era bisogno di un altro film così.
High Ground: il film di Stephen Johnson ispirato a una storia vera
Diretto da Stephen Johnson e scritto da Chris Anastassiades, High Ground non descrive i suoi personaggi in modo completo. Tommy, il ragazzo aborigeno cresciuto dai missionari cristiani che ritorna al suo nome indigeno Gutjuk, Nayinggul è molto bravo e ha una energia espressiva che cattura. Le sequenze d’azione sono incredibilmente brutali e vive di un montaggio serrato, ma il film risulta solo sporadicamente intrigante, senza essere epico come vorrebbe e dovrebbe essere sulla carta. Un film da vedere senza troppe aspettative, di intrattenimento ma povero di idee. Si avverte un riferimento ai film di John Ford, con un’attenzione particolare a celebrare il paesaggio suggestivo e con una lussureggiante vegetazione che fa da sfondo alla vicenda.
Il film procede robusto, ma racconta una pagina di storia con un sensazionalismo fuori luogo. La sceneggiatura è fin troppo semplice e lo spettatore perde interesse per le sorti dei protagonisti e del paese già dopo la prima mezz’ora di film. Selezionato in concorso alla 70ma edizione del festival di Berlino, High Ground non ha brillato ma ha regalato una fuga di un paio d’ore nell’ampia distesa australiana con un Simon Baker che riesce ad essere visibilmente a suo agio in un tailleur a Manhattan o con un outfit impolverato da cowboy in Australia.