Holy Shoes: recensione del film di Luigi Di Capua
La recensione della black comedy che segna l’esordio alla regia di Luigi Di Capua, membro e co-fondatore dei The Pills. Nelle sale dal 4 luglio 2024.
Ha raggiunto la notorietà come co-fondatore (insieme a Matteo Corradini e Luca Vecchi) e membro del gruppo The Pills che ha spopolato con le webseries su YouTube e non solo nel decennio scorso, ma Luigi Di Capua di esperienze in solitaria ne ha fatte e ne continua a fare, compresa quella di esordire dietro la macchina da presa con un film dal titolo Holy Shoes, che il pubblico potrà vedere nelle sale a partire dal 4 luglio 2024 con Academy Two dopo che questo aveva fatto la sua prima apparizione pubblica fuori concorso al Torino Film Festival 2023.
In Holy Shoes delle storie apparentemente slegate l’una dall’altra procedono parallelamente per poi convergere ed entrare in rotta di collisione
Scritta a quattro mani con Alessandro Ottaviani, la pellicola racconta le storie di quattro personaggi, ognuno dei quali vede la sua vita stravolta o messa in pericolo, in forma e in modi differenti, da delle scarpe. Queste diventano di fatto “l’oscuro oggetto del desiderio” per ciascuno di loro in un giro di vite che va in scena in un mondo in cui ognuno desidera ciò che non ha e vuol essere quel che non è. Nel caso di Holy Shoes il rapporto tra l’uomo e l’oggetto trova nella scarpa la metafora del potere disfunzionale e letale che gli oggetti possono esercitare su di noi. Ecco allora che dall’intreccio di più esistenze, al quale fa da cornice una Roma destrutturata nei colori grigiastri, nelle luci al neon e nella visione poco cartolinesca, emerge il messaggio di fondo di un’opera che vuole mostrare cosa l’essere umano può arrivare a fare pur di trovare la propria identità all’interno del mondo che popola e fino a che punto può spingersi per sentirsi accettato e amato dagli altri. Per veicolare il tutto e trasferirlo sul grande schermo, Di Capua si avvale della lama affilata della black comedy e di un’architettura narrativa e drammaturgica che alla coralità aggiunge una struttura che ai più attenti ricorderà il modus operandi alla Paul Haggis o alla Guillermo Arriaga, laddove le diverse storie apparentemente slegate l’una dall’altra procedono parallelamente per poi convergere ed entrare in rotta di collisione come in Crash piuttosto che nella Trilogia sulla morte. Il ricorso alla suddetta struttura però è al servizio di una progressione di facile lettura che sfocia in finali prevedibili che non sortiscono i medesimi effetti dei modelli sopraccitati. Di conseguenza l’apparato eretto in fase di scrittura prima e in quella di montaggio poi si rivela non essere altro che un meccanismo collaudato preso in prestito e messo al servizio di un escamotage utile a tenere insieme le vicissitudini dei personaggi.
L’eccessiva durata, un disequilibrio tra i frammenti narrativi e dei personaggi non tutti messi bene a fuoco sono i punti deboli di Holy Shoes
Come spesso accade in quei progetti dalla natura episodica che fanno della concatenazione e dei vasi comunicanti il motore portante, si assiste nella stragrande maggioranza dei casi a una mancanza di equilibrio e a un dosaggio non calibrato degli ingredienti a disposizione. Di conseguenza ci sono storie tra quelle che vanno a comporre il mosaico che funzionano maggiormente e personaggi più a fuoco di altri. La Luciana interpretata da Carla Signoris in tal senso appare la figura meglio delineata e sviluppata tra tutte quelle presenti su una timeline eccessivamente lunga rispetto alle reali esigenze drammaturgiche (una ventina di minuti in meno nella parte centrale avrebbero sicuramente giovato), con il frammento a lei dedicato che pur non spiccando per originalità mostra una one-line più efficace, strutturata e approfondita. Altri invece risultano più deboli, o meglio più schematici e fragili, nonostante il tentativo da parte degli sceneggiatori di renderne più fitto, stratificato e accidentato possibile il percorso all’interno dell’arco narrativo che li vede protagonisti come il Bibbolino nei panni dei quali troviamo comunque un convincente Simone Liberati, alle prese con un personaggio dal potenziale drammaturgico elevato, diviso tra l’ingombrante figura paterna e il figlio che non riesce pienamente a conquistare, ma purtroppo sfruttato solo in parte. E lui è l’esempio calzante per sottolineare una problematica che purtroppo per Holy Shoes e per il suo autore si ripete in maniera cronica, diventandone il tallone d’Achille.
La regia, la direzione degli attori e la colonna sonora sono le note positive dell’intera orchestrazione
Diverso invece il discorso sul piano formale, con Di Capua che mostra di avere le carte in regola per proseguire il suo cammino da regista. La varietà di soluzioni interessanti trovate di volta in volta per mettere in quadro le scene, oltre alla buona direzione degli attori che vanno a comporre il folto cast, denotano una certa maturità e consapevolezza del mezzo, rendendo la fruizione quantomeno accattivante così come la colonna sonora che l’accompagna.
Holy Shoes: valutazione e conclusione
Se registicamente e stilisticamente parlando Luigi Di Capua, membro e co-fondatore dei The Pills, dimostra di avere tutte le carte in regola per continuare a lavorare dietro la macchina da presa, mettendo a disposizione della sua opera prima una discreta ed efficacia varietà di soluzioni visive e tecniche, oltre a una buona direzione degli attori, per quanto riguarda la scrittura c’è invece ancora un bel po’ da fare. Il ricorso a una struttura narrativa a intreccio assai complicata da mettere in atto e da gestire come quella alla Crash non utilizzata a dovere si tramuta nel tallone d’Achille di un’opera dalla durata eccessiva rispetto alle reale esigenze del racconto. Alcune storie sono sviluppate meglio di altre, così come alcuni personaggi sono più a fuoco di altri. Il ché provoca uno squilibrio tra i singoli frammenti che poi ricade sul complesso e sul mosaico nella sua interezza. Per il resto buona la direzione degli attori e da segnalare la colonna sonora che rende la visione accattivante.