Homecoming – A Film by Beyoncé: recensione del documentario Netflix
Homecoming celebra i preparativi della storica performance di Beyoncé al Coachella, attraverso momenti personali, le prove, l'ispirazione e le performance
I festival musicali non hanno mai avuto un volto e un archetipo stabile. A partire dai più celebri e iconici come Woodstock, Lollapalooza, Electric Daisy, la musica è sempre stata il perno attorno al quale si è costruita un’idea di spettacolo che si è evoluta nel tempo, cominciando dagli anni ’60: i tre giorni di musica che si svolsero sul prato di Bethel, nell’agosto 1969, non furono solo un grande evento musicale, ma giornate di fuoco determinate da una forte connotazione politica e sociale, che nessuno avrebbe scommesso che sarebbero passate alla storia. Con il Coachella, manifestazione musicale che si tiene ad Indio in California dal ’99, i festival sembrano essere tornati ad una dimensione politico-sociale che si è un po’ persa nel tempo, una dimensione raggiunta ed ottenuta soprattutto grazie alla sua headliner del 2018, ovvero Beyoncé.
Beyoncé è la prima artista e donna afro-americana ad essersi esibita al Coachella e lo spettacolo che ha realizzato è stato talmente simbolico e ispirante che, a distanza di un anno, è stato distribuito sulla piattaforma Netflix il documentario tratto da questo evento, Homecoming – A Film by Beyoncé. Il documentario è in parte concerto tradizionale, in parte documentario: durante le 2 ore e 17 minuti di durata, Beyoncé non solo ci porta sul palco assieme a lei, durante le sue performance, ma anche dietro le quinte, per mostrarci la fatica, il duro lavoro e i sacrifici fisici che ha sopportato, lei e la sua crew, e quali sono le idee e le ispirazioni che hanno dato vita ad una esibizione che non è stata solo musicalmente ineccepibile.
Homecoming: il documentario Netflix diretto da Beyoncé
Questo docu-film, diretto da Beyoncé e co-diretto da Ed Burke, è un genere ibrido che in un certo senso ha sperimentato per la prima volta sei anni fa, con il documentario HBO Life Is But a Dream: mentre quel documentario conteneva un ritratto intimo di Beyoncé, riprendendo un anno della sua vita e della sua carriera, a partire dagli spettacoli del 2012 ad Atlantic City e l’esperienza di essere incinta di sua figlia Blue, Homecoming celebra i preparativi estenuanti della sua storica performance al Coachella, attraverso momenti personali e le numerose prove a distanza di quattro mesi dal concerto.
Homecoming è molto più che un documentario o un film concerto, è un’iperbole visiva, una commemorazione storica, l’apoteosi di una trasformazione artistica che con Lemonade, visual album uscito nel 2016, ha determinato la sua iniziazione. Questo spettacolo è un rito di passaggio tra ciò che Beyoncé ha rappresentato e ciò che faticosamente ha conquistato, gradino dopo gradino, attraverso le sue lotte per l’autodeterminazione è l’invocazione di un sempre maggiore empowerment nero, femminile e delle minoranze.
Una piramide sul palco, duecento artisti e un pubblico sconfinato: Homecoming affianca i due weekend di performance, giallo per il primo e fucsia per il secondo, con una molteplicità di angolazioni e filtri, un concerto attraverso cui Beyoncé ha deciso di celebrare l’HBCU e la cultura nera, intervallando le scene con citazioni di Toni Morrison, WEB Du Bois, Nina Simone, Maya Angelou e Chimamanda Ngozi Adichie, tra gli altri. Un chiaro omaggio alla cultura e all’orgoglio delle Historically black colleges and universities, che anche il padre di Beyoncé ha frequentato.
Homecoming è un’iperbole visiva, l’apoteosi di una trasformazione artistica
Il set della performance è stato caratterizzato da gradinate piramidali, con oltre 100 musicisti da orchestra e altrettanti ballerini che hanno determinato una coreografia visiva spettacolare. Anche i look di Queen Bey sono strabilianti, cinque look personalizzati, ognuno dei quali onora il potere Black: per aprire lo spettacolo, Beyoncé è salita sul palco in un abito lungo che l’ha resa immediatamente una regina egiziana, poi ha indossato delle felpe rosa e gialle, un tributo alle prime confraternite nere che furono fondate in America nel 1908, e ancora un corpetto nero con i simboli dell’oppressione dei neri, in cui si può distinguere il pugno del movimento dei Black Panters.
Risulta quantomeno evidente che Beyoncé attraverso questo documentario, e la sua performance al Coachella, ha trovato una dimensione e un linguaggio per esaltare e celebrare il proprio patrimonio culturale. In questo processo creativo ovviamente non manca la musica: il film è un pot-pourri di generi musicali, riferimenti visivi e allusioni letterarie. Tutto fluisce egregiamente, documentario e film musicale, nonostante i salti e le interruzioni, i dietro le quinte, si assapora tutto d’un fiato con piacere, godendo delle sue hit, le scene di ballo, l’orchestra, e i numerosi riferimenti al patrimonio culturale afroamericano: il Jazz di New Orleans, il rap di OT Genasis, e ancora Nina Simone, l’Hip-hop di New York, il movimento per i diritti civili, la danza tradizionale dell’Africa occidentale, l’inno nazionale afroamericano Lift Every Voice and Sing che Beyoncé lascia confluire in Formation come una conseguenza naturale della musica.
Homecoming chiarisce che quelle esibizioni sono l’apice di un lungo e arduo percorso che comincia con l’ingresso della cantante in quel periodo di prove, mentre si stava ancora riprendendo dal parto in cui ha dato alla luce i suoi due gemelli, dopo una gravidanza difficile. I quattro mesi di prove di danza sono scanditi da scene in cui Beyoncé racconta in voiceover i suoi pensieri, le sue confessioni, dichiarando quanto spesso si sia sentita in difficoltà: “Ci sono giorni in cui ho pensato che non sarei stata più la stessa. La mia forza e la mia resistenza non sarebbero state più le stesse.” La vulnerabilità di Beyoncé è evidente: in quei momenti appare chiaro quanta preparazione e resistenza fisica serve per raggiungere quel livello di grandezza, per non parlare del prezzo che questo perfezionismo assume essendo madre di tre figli.
Homecoming è un lavoro visivo e simbolico ineccepibile
Homecoming ci mostra il lavoro necessario per raggiungere quell’auto-accettazione di sé, un percorso che Queen Bey ha attraverso per accogliere il suo corpo e le sue curve, i suoi limiti, i suoi sacrifici. Si può osservare Beyoncé avvicinarsi alla pista da ballo delle prove il suo primo giorno dopo la gravidanza con trepidazione visibile: “Devi essere umile. Devi essere disposto a sembrare imbarazzante. Devi studiare.” Mette in chiaro che ha sudato e ideato ogni dettaglio dei suoi spettacoli del Coachella, ha scritto personalmente la serata, selezionato i ballerini e le luci, ha diretto le esibizioni e realizzato lo stage e il palco: “Ogni piccolo dettaglio aveva un’intenzione”.
Homecoming è un momento che definisce una carriera, è la celebrazione di un passato di lotta e affermazione, l’apice del lavoro di una donna di successo e di coloro che hanno permesso che tutto questo fosse possibile, una performer perfezionista, creativa, al limite dell’ossessione artistica. Homecoming è stata a lungo la sua missione, espressa nella sua idea di formazione, comunità e cooperazione, nelle coreografie e nella musica, un lavoro visivo e simbolico ineccepibile che, come tutti i capolavori, è inarrivabile.