House of Versace: recensione
Fama, potere, soldi, omicidio, famiglia: con queste parole si può descrivere la dolce vita made in Versace; ma ogni impero ha la sua caduta. L’Atelier Versace, fondato a Milano nel 1978 dallo stilista Gianni Versace. è uno dei marchi di moda più conosciuti al mondo, apprezzato da personalità del mondo della televisione, della musica e della politica. Nel 1989 Versus fa la sua comparsa, incentrata su uno stile di moda più giovane rispetto a quello creato da Gianni Versace per l’Atelier e nel 1992 nasce Versace Home Collection, marchio incentrato su arredamenti, complementi d’arredo, lampade, biancheria, piastrelle, porcellane e cristalli. Oltre ai marchi già citati, l’azienda Versace produce anche profumi, orologi ed è proprietaria della linea di alberghi Palazzo Versace luxury hotel. Ma Versace non è solo il nome di una grande casa di moda milanese, è anche il nome di una famiglia che ha dovuto affrontare la perdita di un’icona, la caduta aziendale e la rinascita in grande stile.
Donatella, dopo la scomparsa di Gianni, deve occuparsi della gestione dell’Atelier Versace, ritrovandosi ad avere una serie di responsabilità molto pesanti. Facendo uso di alcool e droghe per temere di fallire e perseguitata dal fantasma del defunto Gianni, viene aiutata dal fratello Santo, portando il gruppo a diventare una delle più famose e prestigiose aziende nel campo della moda e facendo affermare Donatella come imprenditrice di successo.
Tratto dal libro “House of Versace: The Untold Story of Genius, Murder, and Survival” di Deborah Ball, House of Versace è un film avvincente che, nella sua semplicità di narrazione, vi terrà incollati allo schermo per i suoi 80 minuti di durata. Ed è proprio nella durata che non si possono non fare i complimenti alla regia di Sara Sugarman, che riesce in così poco tempo con tocco dinamico e frizzante a condensare non solo gli anni della nascita, caduta e rinascita dell’Atelier Versace, ma anche fatti di cronaca sparsi negli anni (oltre alla scomparsa del compianto Gianni) come la morte di Lady Diana o gli accenni al crollo delle torri gemelle.
Gina Gherson porta in scena una Donatella triste, sola, totalmente straziata dalla perdita del fratello e con il peso di una grande azienda da mandare avanti sulle spalle; ma anche la donna che è tutt’oggi, la sua stupenda visione artistica, la passione per il suo lavoro e l’amore sconfinato per la sua famiglia. Per i minuti in cui è presente in scena, Enrico Colantoni ci mostra un Gianni Versace sognatore, innamorato dello stile di vita “da celebrità” che ormai fa parte della sua routine giornaliera ma con il cuore diviso tra l’amore e la venerazione per la sorella Donatella e la casa di moda che porta il suo nome. Il Santo Versace di Colm Feore è forse il personaggio più freddo, descritto come una persona al limite tra l’imprenditore e il politico (il vero Santo ha intrapreso realmente la carriera politica) è tra i tre il fratello con i piedi per terra, che cerca di mantenere l’ordine all’interno di un dispendio di finanze senza fine che porterà all’inevitabile crollo dell’Impero Versace; ma è anche la figura che riuscirà a far risorgere dalle ceneri l’Atelier di Gianni e ristabilire armonia all’interno della famiglia. Seppur di stampo televisivo, la fotografia di John Dyer è comunque patinata, perfetta per il mondo descritto nel film tv anche se, con qualche azzardo in più, sarebbe potuta rimanere impressa nella mente e negli occhi degli spettatori, pur non stonando affatto affiancata allo stile registico del biopic.
House of Versace è un film da vedere non solo per conoscere una delle case di moda italiane più famose al mondo, ma per scoprire la storia di una famiglia che ha fatto della moda la sua ragione di vita.
Piccola curiosità: Donatella Versace non ha autorizzato la produzione del film-tv, ed attraverso il suo entourage ha fatto sapere di non aver partecipato alla sua realizzazione, considerandolo un’opera di finzione.