Human, Space, Time and Human: recensione del film di Kim Ki-duk
Su una nave da guerra ormai in disuso si imbarcano persone di diversa provenienza. Una vacanza, apparentemente, fino a quando l'imbarcazione inizia senza motivo a volare e fluttuare tra le nuvole, senza alcuna possibilità di atterraggio...
Kim Ki-duk, nei suoi ultimi anni di carriera (e di vita), è stato letteralmente travolto dalla brutalità dell’esistenza. Non che sia mai stato un ingenuo sognatore, sia chiaro: solo che nei più evidentemente e brillantemente poetici Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2002) e Ferro 3 – La casa vuota (2003) le storture del mondo venivano mitigate da una incrollabile speranza per il futuro, o da un potere oscuro chiamato Amore che ci prima o poi ci avrebbe sollevato dalle umane sciagure. Ma da quei capisaldi, da quei film che l’hanno fatto conoscere alle platee di mezzo mondo, di anni ne sono passati 10, 12, 15, e le riflessioni di Kim sono cambiate radicalmente.
Già da Pietà (2012, Leone d’Oro a Venezia), la realtà per Kim Ki-duk aveva assunto ben altri connotati: l’essere umano è corrotto, è sempre e comunque mosso da intenzioni sbagliate e da insanabili sensi di colpa atavici. Una discesa agli inferi che prosegue ad esempio con One on One (2014), e approda a Human, Space, Time and Human, mai ufficialmente uscito in Italia e presentato al Korea Film Fest 2021. Un’opera piena di refusi e imperfezioni, come se all’autore non interessasse più tanto la forma quanto il bisogno di esplicitare il proprio disagio oramai cronico.
Human, Space, Time and Human: storia di una nave che fluttua nel cielo
Difficile – e, aggiungiamo, strumentale – riuscire a capire col senno di poi quale mai possa essere stato il testamento artistico di Kim, dovendo scegliere tra i suoi 24 film. Di sicuro Human, Space, Time and Human è una summa di tutta la sua poetica, quasi un Bignami. C’è una situazione di partenza anomala e bizzarra, con un gruppo di persone che si imbarca su un cacciatorpediniere della Seconda Guerra Mondiale ormai in disuso, come fosse una crociera. C’è l’umanità varia che lo abita, formata da politicanti e gangster (che forse sono la stessa cosa), sposini in viaggio di nozze e prostitute, anziani saggi e giovani predatori (perlopiù sessuali).
Poi, il colpo di scena: l’imbarcazione all’improvviso inizia a volare, a fluttuare tra le nuvole senza alcuna ragione. È una situazione che non prevede soluzione: occorre razionare il cibo per cercare di sopravvivere il più possibile, mentre prende forma un golpe militare con annessa legge marziale che inevitabilmente suddivide i poveri dai ricchi, i potenti dai deboli destinati a soccombere. Una sorta di dittatura, che sembra seguire il motto (pronunciato da uno dei personaggi, l’avido senatore interpretato da Lee Sung-jae) “La vita è cercare di soddisfare i propri desideri, finché si muore”.
Mangiare, prima di essere mangiati
La messinscena è sciatta, involuta, abborracciata. E con Kim resta sempre da capire quanto questo corrisponda a una volontà o a una necessità. Dal documentario Arirang (2011) in poi, ogni suo nuovo lavoro è quasi sempre sembrato più una seduta di psicanalisi e autoanalisi che un prodotto destinato alle sale, con la stringente necessità di esorcizzare i propri demoni e provare a ridare ordine alle ossessioni del presente. Qui, la ciclicità insita nel titolo stesso – perché si parte e si finisce osservando l’umanità, in continua lotta con lo spaziotempo – serve a veicolare un messaggio di annientamento, di distruzione etica e morale. Perché sono solo la violenza e il peccato a governarci e guidarci, rendendo impossibile l’apprendimento e la rimodulazione dei nostri errori.
Un percorso banale, intriso di faciloneria e più di ogni altra cosa esibito, in cui le metafore sono spiattellate senza il minimo mistero (bisogna mangiare il prossimo, letteralmente e spiritualmente, prima di essere mangiati) e in cui la crudeltà non scende più a patti col sublime e l’armonia. Lo si può definire un cinema minore, la parte più trascurabile di una carriera che ad un certo punto ha subito una brusca battuta d’arresto. Eppure, l’ultima produzione di Kim è utile e fondamentale esattamente quanto lo sono i suoi esordi, da Coccodrillo (1996) a Dream (2008): è solo rispettando anche il suo pessimismo incontrollato e la sua sbilanciata negatività che possiamo rendere merito a un talento che non abbiamo mai saputo – o potuto, o voluto – comprendere fino in fondo.