I Am REN: recensione del film fantascientifico di Piotr Ryczko
I Am REN, esordio di Piotr Ryczko, è un film fantascientifico intimista che riflette sulle vittime e sul ruolo delle donne nella società.
La fantascienza ha in sé la trasformazione, l’adattamento. Che sia un tipo di storia nato dalla trasmutazione di racconti di altra natura, in primis quelli avventurieri, ci suggerisce che l’adattamento è strutturale nella fantascienza: il viaggio alla scoperta di nuovi continenti è diventato il viaggio alla scoperta di nuovi universi. E meglio di qualunque altro genere cinematografico, nettamente definibile o meno, la fantascienza ha saputo plasmare la sua forma e modellare i suoi caratteri seguendo l’evoluzione naturale e progressiva della società e del mondo contemporaneo. A partire da un microbudget, da un’idea preesistente ma rielaborata secondo le esigenze di racconto e dal supporto di ottimi attori, I Am Ren, esordio alla regia di Piotr Ryczko, abbraccia senza indugio le infinite possibilità che il genere mette a disposizione e avvalora due tesi: la prima è che per lo sci-fi vale la stessa regola in vigore per ogni altro genere cinematografico, e cioè che la sua esistenza e il budget a disposizione non sono elementi interconnessi; la seconda è che questo genere cinematografico continua, su ogni livello produttivo, a reinventarsi e trasfigurarsi sul fondamento degli assetti e dei rapporti sociali che codificano la nostra contemporaneità.
I Am REN: storia di un breakdown fisico e mentale
Protagonista del film di Ryczko è Renata (Marta Kròl), madre e moglie che rimane vittima di un violento crollo psicotico, un breakdown, termine a cui nella sua lingua madre corrisponde un doppio significato: il primo descrive, appunto, la psicosi, l’evento singolo e circoscritto che potrebbe generare un disturbo a lungo termine; il secondo è quello di “guasto”, rottura. Dev’essere a partire da questa sottile analogia fra corpo, quindi soggetto cosciente, e oggetto, che presto Renata rivela al suo psicoterapista di essere in realtà REN, androide multitasking capace di rapidissimo apprendimento, ma il cui corretto funzionamento è ora compromesso da un glitch nel suo sistema. Da sempre significante ideale e ricorrente della psicopatia, la frattura è simbolo filmico onnipresente nel tessuto narrativo e nell’impianto estetico di I Am Ren, che fa del montaggio il veicolo perfetto per disgregare la linea cronologica e dimezzarla fra un passato privato dei pezzi fondamentali e un presente incerto, ambiguo, in cui la protagonista intraprende un percorso di autoanalisi che deve, in un modo o nell’altro, portarla a ricomporre la sua vita.
Ma quella che dovrebbe essere un’analisi su se stessa, una ricerca intima, assume subito i connotati di un’indagine che si percepisce minata da un complotto ordito da terzi. REN(ata) non solo è frutto (quasi) perfetto dell’ingegneria robotica, ma è ora anche bersaglio della stessa PNC Corporation che l’ha “partorita” e che ora vorrebbe terminarla, per sostituirla con un nuovo modello più efficiente e in grado di far da genitrice più affidabile per il figlio Kam. La fantascienza di Ryczko è, in pratica, la rielaborazione dai freddi e rarefatti toni scandinavi (come il regista, pur essendo d’origine polacca, ha definito il suo film) di una fantascienza che affonda le radici negli anni settanta, in un territorio cinematografico contaminato dalla letteratura ed estremamente sensibile a ogni altro input proveniente soprattutto dal rimodellamento di una società che stava rispondendo alle spinte di un cambiamento epocale.
Il recupero di una memoria perduta (o censurata)
REN, o Renata, è quasi un doppio sofferente della Joanna che nel thriller satirico The Stepford Wives (film del 1975 tratto dall’omonimo romanzo di Ira Levin) si era ritrovata al centro di un intrigo rivolto a danno delle donne della ridente e misteriosa Stepford. La differenza sostanziale è che REN(ata) è non solo, plausibilmente, limitata nelle sue azioni e nei suoi movimenti, dunque impossibilitata a inabissarsi davvero nell’indagine per riemergerne con successo, ma anche ossessionata dal recupero di una memoria perduta che potrebbe capovolgere l’intera ricerca e che, quindi, ne fa una protagonista e una testimone inaffidabile.
Renata/Ren, come gli spettatori che assistono, sa che c’è una ragione per cui la sua mente ha deciso di smarrire i pezzi del puzzle lungo il percorso, e forse è proprio la censura di questa ragione, di questo motivo dimenticato, a renderle impossibile il recupero dei suoi ricordi (e si ritorna all’analogia linguistica fra “recover” in senso generico, il “recupero” di qualcosa, e il “recover” legato alla “ripresa” della salute fisica e mentale). I Am Ren, come ogni altra opera che utilizzi il genere come mezzo e non come fine ultimo, è un esordio intelligente che gioca sull’ambivalenza delle sue figure, dei suoi simboli, dei suoi significati sui diversi piani narrativi, riuscendo a cogliere e a sfruttare nella sua storia gli elementi già esistenti per un’analisi sul nostro mondo.
I Am REN: connessione fra la fantascienza e gli assetti della società contemporanea
La soluzione è sospesa come tutta la narrazione: non capiremo mai se Ren abbia ragione, se sia vittima di un complotto o se sia solo vittima del suo trauma, che la spinge a identificarsi in un robot malfunzionante e che la spinge a formulare vie di fuga piuttosto che vie di accettazione, e che la porta a ipotizzare e a credere in una realtà alternativa più accettabile della verità. I messaggi che in televisione pubblicizzano “REN, il robot perfetto” potrebbero essere suggestioni, allucinazioni, o potrebbero essere reali ed essersi cristallizzati nella sua psiche nel momento di maggior fragilità. La visione della famiglia perfetta, sul finale, potrebbe essere reale o illusoria, potrebbe essere un ricordo o il presente. Dare una risposta certa a questo non è lo scopo del film. Il film, piuttosto, sembra voler in primo luogo ragionare sul ruolo delle donne, tese fra la propria identità e le aspettative fabbricate dalla società in cui sono immerse; in secondo luogo, insinuare il dubbio che siamo noi, gli altri, i “sani” della società, i lucidi sempre disposti a tendere la mano e a dettare le scelte più giuste per i “malati” e a sostituirci ai loro cervelli, a portare le vittime a credersi corpi artificiali nostri, oggetti incapaci di pensiero e desiderio perché non hanno accesso a quello stesso pensiero o desiderio. E quando un individuo, nello specifico una donna, arriva a credersi una cosa – e, peggio, una cosa rotta – è molto facile che giunga anche a dubitare della realtà.
Il film è disponibile sulla piattaforma streaming SCiFi CLUB da maggio 2021.